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Web & solitudine, il fattore umano

Web e solitudine. Un binomio che si fa sempre più attuale, soprattutto tra molti giovani che – secondo recenti ricerche universitarie statunitensi – sono sempre più intrappolati nella rete. Con una serie di patologie a cascata

Sebastiano Maffettone ci aiuta a proseguire la nostra indagine sul rapporto tra web e solitudine

Ne abbiamo parlato con lo psicoterapeuta ed esperto di dipendenze Michele Rossena. Ora è la volta di Sebastiano Maffettone, docente di filosofia morale alla Luiss, dall’inizio dell’anno accademico direttore del master di giornalismo in vita da oltre vent’anni. Lo intervistiamo quando, all’università, sta per arrivare il premier Matteo Renzi.

Professor Maffettone, nel 1984, per ricordare la figura di Enrico Berlinguer appena scomparso, lei preparò per la Voce della Campania un intervento per certi versi “eretico”, in sostanza attaccava lo scritto dell’allora segretario Pci sull’attualità della cultura marxista nel nostro Paese. Visto il livello dell’attuale dibattito politico, pensa che abbiamo fatto passi in avanti?
Ricordo con emozione quei giorni dopo la scomparsa di Berlinguer e quell’intervento sulla Voce. Quei ragionamenti mi sono passati per la mente leggendo le pagine del libro di Francesco Piccolo. Il Pci, anche nelle sue successive versioni, è rimasto legato al suo passato in modo quasi indissolubile. Ora è successo lo strappo che ha portato in un mondo del tutto diverso, sconosciuto. A mio parere, la sinistra da noi o è premoderna o è post moderna. Non ci sono vie di mezzo. Non ci sono mediazioni normali.

Ma veniamo al nostro tema, web e solitudine. Secondo ultimi studi, la net dipendenza sta diventando una vera patologia tra moltissimi giovani, in costante aumento. Il risultato è un crescente senso di solitudine, come se il villaggio globale, aperto e democratico, si stesse trasformando in una sorta di gabbia…
Siamo al paradosso che attraverso la rete, il web e tutti gli strumenti di internet le vie della comunicazione si sono moltiplicate a dismisura. Ma si comunica di meno. Nel momento in cui io posso comunicare con tutti, non comunico con nessuno. Anzi, comunico da solo.

Da qui anche i giochi sul tablet, mi isolo, mentre gli altri parlano…
Proprio così. Certe vie tradizionali, ma non per questo da buttare via, nei rapporti di comunicazione, sono ormai per i più diventate obsolete. Prendiamo fare un appuntamento. Guai adesso ad usare il telefono, figuriamoci il fisso, ma neanche il cellulare. Nemmeno più una mail. Forse anche un sms sta passando di moda. Ci vuole sempre qualcosa di nuovo, l’armamentario cambia di continuo.

E crea un senso totale di isolamento, sia in chi lo usa, sia in chi lo subisce, nel senso che caso mai non vi si adatta.
E’ un mondo di solitudini crescenti. Il discorso centrale, a mio parere, riguarda il ruolo delle persone, degli esseri umani. Perché se il pallino è ora passato alle tecnologie, ai tecnicismi, e la persona ne viene man mano avviluppata senza neanche accorgersene, il problema è quello di ritrovare, di riscoprire quell’uomo che ancora c’è dentro. Nei rapporti sociali, in quelli lavorativi questo diventa essenziale, altrimenti non c’è ritorno.

Cosa intende più precisamente riferendosi al mondo del lavoro?
Un imprenditore, si direbbe oggi, illuminato, Adriano Olivetti, aveva a mio parere visto giusto, guardando già allora molto lontano. Ricordo che alla Olivetti di Arco Felice, alla periferia occidentale di Napoli e a un passo da Pozzuoli, i livelli di produttività non erano particolarmente brillanti. Bene, il cambio di rotta e una effettiva inversione di tendenza si ebbe quando presero corpo quelle iniziative di vera umanizzazione del contesto lavorativo, con la creazione di asili per i figli dei dipendenti, di concerti, iniziative cinematografiche o teatrali. La produttività di Arco Felice superò addirittura quella di Ivrea, il che è tutto dire. Il pensiero di Jacques Maritain, le buone prassi aziendali di Olivetti, erano un ponte tra l’economia e gli esseri umani, le persone tornavano ad avere un ruolo centrale: le guardi in faccia, non attraverso un numero, o una percentuale. Non si tratta di essere nostalgici o sentimentali, né ottocenteschi, ma di trovare un sano equilibrio fra l’auto e chi la conduce, fra la tecnica e chi decide da che parte andare. Se c’è più umanità anche la macchina, alla fine, rende meglio. Oggi, invece, il rapporto è del tutto ribaltato. E a perderci è l’uomo. Del resto, anche in Orwell la chiave della salvezza è nel rapporto umano, un rapporto tra due persone reali. Quanta gente è uscita dal tunnel della droga sotto la spinta emotiva di un amore improvvisamente trovato, per una ragione sentimentale caso mai casuale.

Quindi anche per uscire dalle maglie della rete e dalla sua dipendenza non c’è che da sperare in un nuovo umanesimo…
Forse sì, ma poi i problemi non sono finiti.

In che senso?
Nel mondo web una delle questioni più grosse, tutta ancora da affrontare sul serio, è quella della privatezza. Attraverso le maglie della rete, infatti, si sta perdendo progressivamente ogni senso di rispetto per l’individuo, considerato nella sua autonomia. Si entra nella vita delle persone, si è oggetti di persecuzioni telefoniche, la posta che era una delle cose più intime e riservate è ora a disposizione di tutti. Prediamo le mail: per me è come mandare una lettera senza busta, chiunque può leggerla. Assistiamo, a mio parere, ad una sconfortante, progressiva perdita della riservatezza.

Una volta c’erano gli investigatori privati per scoprire gli altarini, ora basta un accesso alla tua posta elettronica o al tuo telefonino….
Infatti, siamo ben oltre. Non è più il tempo dei teleobiettivi che dovevano rubare l’attimo fuggente per uno scatto da scoop, né più quello dei pedinamenti. Basta un po’ di tecnologia. Ma è soprattutto il singolo, l’individuo oggi a essere del tutto vulnerabile rispetto alle molteplici violazioni possibili della sua privatezza.

Altri recenti studi sempre sulle diavolerie informatiche, descrivono un vero grande fratello che ti spia quotidianamente, ad esempio quando credi di navigare tranquillo su internet. E invece, i tuoi accessi sono schedati al punto giusto: nella migliore delle ipotesi utilizzati a fini pubblicitari, nelle peggiori per un utilizzo ai limiti del lecito da datori di lavoro e assicurazioni.
Esatto. Ricordo quanto ha raccontato, nel corso di alcune lezioni alla Luiss, un professore norvegese, proprio a proposito di aziende che fanno ricorso, per la ricerca degli addetti, a questi dati personali, un modo di selezionare dei dipendenti che rispondano a certi precisi profili, e che non abbiamo problemi di salute, di tendenze sessuali o via di questo passo. Facciamo un esempio: mi piace fare sesso vestito da antico romano, caso mai vado su internet per vedere alla voce ‘abiti romani’: ma perché tutti devono poi sapere – o comunque molti possono essere messi nella condizione di sapere questo mio eventuale passatempo? Ma perchè mai ogni individuo deve essere esposto a possibili forme di ricatto? Perchè si deve essere continuamente dossierati e spiati via computer?

E tutto ciò può essere usato in modo strumentale ad esempio a livello politico…
Certo. Prendiamo l’ultima campagna presidenziale di Obama. Ha inviato sei milioni di mail, una platea sterminata. Molte a quanto pare sono finite a militanti del Ku Klux Klan: che uso ne possono aver fatto, quali manipolazioni potevano essere a quel punto messe in campo? Misteri del mondo di google e dintorni. Il fatto fondamentale è che esiste uno scambio tra i grandi server e il potere economico-finanziario.

Una patologica fisiologia forse di questo sistema capitalista. Ma siamo pur sempre sotto un cielo democratico…
E qui occorre far cenno a un terzo elemento forte di questo mondo nella rete. Ha senso oggi parlare di “segreti”? Di segretezza in un paese aperto a tutte le reti e a tutti gli Snowden del caso come gli Usa? Negli Usa, il paese dei fascicoli “classified”, vige sempre il primo emendamento, e la Cia stessa ha un vincolo di contratto sulla segretezza. Ma chiediamoci: è possibile sapere tutto di tutti? O c’è un limite? Ricordo l’intervento in aula, alla Luiss, di uno studente indiano, si parlava di disobbedienza civile, come strumento anti potere per la trasparenza. Ma si argomentava che poteva pur sempre rappresentare una extrema ratio, non una cosa da tutti i giorni, e cioè una volta fatte tutte le proteste di piazza del caso, aver mobilitato i giornali, aver sollecitato interventi in parlamento. Alla fine del discorso c’è il quesito: su tante questioni di interesse nazionale, è il caso di spiattellare sempre tutto in pubblico? O ci può essere un qualche limite? Il problema va posto.

Andiamo a terminare con l’informazione canonica, giornali e tivvù. Cosa ne pensa di questa Rai prossima ventura?
Siamo ancora alle primissime battute, sul versante Rai. Penso che l’ingrediente base non potrà prescindere dall’intelligenza: ci vogliono programmi intelligenti, i soli che possono avere un presente e anche un futuro. Chiamiamole nicchie, per certe fasce di ascolto, ma è così. Sta finendo la tivvù generalista. Penso al programma di Renzo Arbore, che stimo da sempre, “Meno siamo meglio stiamo” all’una di notte, un programma pensato proprio per chi ti vuole, chi ti cerca, chi ti segue. Diciamo persone intelligenti, oppure appassionate. Penso a forme anche spinte e innovative, come quel True Detective, testi complessi, sorta di psicologia metafisica, anche filosofia, pensi che il pubblico scappi e invece fa registrare grandi ascolti in tutto il mondo. Oppure penso a certe ultime pubblicità progresso, forme d’arte contemporanea, un tutto gestaltico, che crea sorpresa, curiosità, non il solito slogan per comprare e via.

E per i media cartacei, quotidiani o periodici, quale futuro dietro l’angolo?
I giornali chiudono. Ma l’informazione non può morire. C’è un diluvio di notizie, oggi, ma troppa informazione alla fine implode. Ci vuole, anche qui, la qualità. Ci vorranno sempre professionisti in grado di mediare tra i fatti, di andare al cuore delle cose, delle notizie. Far capire quel che davvero sta succedendo. Penso al Medio Oriente, alle vicende dell’Isis. Leggo quotidiane cavolate, spesso non filtrate. In molti casi non c’è neanche la volontà oltre che la capacità di capire i fenomeni. Bisogna andare sul campo, stare lì, approfondire. Come metodo di lavoro, di ricerca.

Libro o ebook?
Io resto ancorato alla pagina cartacea di sempre. Ma sento tanti giovani che riescono anche a integrare i due sistemi, ad usarli sapientemente in certe occasioni. Secondo diversi miei studenti il tablet in aereo va bene, lo usano.

A proposito di studenti, quelli che frequentano il master in giornalismo come li vede?
Bravi. In gamba. Preparati. E anche motivati.
E la motivazione, nella giungla dei problemi, è un fiore raro.

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