Il segretario generale dell’Uspi, Francesco Saverio Vetere, fa il punto sulla situazione dei periodici italiani e sulla riforma dell’editoria: “Il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione dovrebbe avere ampio respiro e incentivare l’occupazione di giornalisti e grafici editoriali, rendere sostenibili i costi di diffusione e quelli per l’adeguamento alle nuove tecnologie digitali”
La legge di riforma dell’editoria e per l’istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, ora all’esame del Parlamento, rappresenta un concreto tentativo di intervenire a sostegno di un settore che ha visto ulteriormente acuirsi una crisi talmente grave da metterne in discussione la stessa sopravvivenza. A spiegarlo è il segretario generale dell’Uspi (Unione Stampa Periodica Italiana), Francesco Saverio Vetere, che sottolinea anche come “la piccola e media editoria italiana abbia subìto una radicale diminuzione del numero delle testate edite, a differenza della grande editoria che ha, invece, visto ridursi del numero delle copie vendute e dei ricavi pubblicitari, senza però che venisse mai minacciata la sopravvivenza dei giornali”.
Che momento vivono gli associati all’Uspi ?
Questa domanda mi permette di illustrare, con nitidezza, la particolare situazione della piccola e media editoria italiana, che l’Uspi rappresenta e tutela. Mi scuso, quindi, fin d’ora, se la mia risposta sarà un po’ lunga, ma credo che ne valga la pena per comprendere un comparto molto vasto (6/7 mila periodici), mai monitorato e, soprattutto, molto poco conosciuto e considerato… Recupererò tempo e spazio con risposte più brevi alle altre domande.
Questa crisi è stata generata da alcuni fattori, come la crisi generale dell’economia, ma anche dalla progressiva, drastica riduzione dell’intervento pubblico sul settore.
Per comprendere meglio, ecco solo un po’ di numeri che sottolineano, da un canto, l’importanza e l’incidenza della piccola e media editoria periodica che rappresenta, come affermato dall’Autorità, “circa la metà del mercato in termini di valore” nella“Relazione annuale del Presidente dell’Agcom del 2014 e, d’altro canto, il lato meno conosciuto della crisi che sta attraversando (ricordando che al Roc si iscrivono gli editori, prescindendo dal numero delle testate edite da ciascuno):
– editoria cartacea: nel “Registro degli operatori di comunicazione (Roc)”, ad oggi, si trovano censiti 13.422 operatori, di cui 5.454 editori cartacei attivi e 7.968 cessati;
– editoria elettronica: 3.218 censiti, di cui 2.244 editori elettronici attivi e 974 cessati (Fonte: Roc).
È impressionante soprattutto il numero degli editori cessati e, da questo punto di vista, anche l’editoria online, che a detta di tutti è il futuro del settore a cui tendere, non se la passa bene.
Partiamo da questi dati, non potendo fare alcun affidamento sui Registri Stampa dei Tribunali, per una prima considerazione.
Quali sono le criticità che riscontrano i vostri associati?
Gran parte della piccola e media editoria periodica è ancora un’editoria “di carta”. Questa editoria: quella di nicchia e specializzata, le riviste culturali, i periodici territoriali e quelli espressione dell’associativismo sociale e religioso, i periodici di raccolta fondi per le finalità più ampie e meritorie (Amnesty, Lega del filo d’oro, WWF, Emergency…), preferisce ancora usare lo strumento della carta per raggiungere i propri lettori e associati.
Non solo per tradizione dell’editore o dei lettori, ma perché il giornale cartaceo entra dentro casa; è il giornale che va a trovare il lettore e non viceversa, come avviene per l’editoria elettronica.
Segnaliamo, inoltre, che la produzione di una rivista cartacea dà lavoro a molti occupati: addetti alle cartiere, alle tipografie, grafici, spedizionieri, addetti alla distribuzione… oltre, naturalmente, a giornalisti e amministrativi della casa editrice.
Da questa prima considerazione, ne scaturisce subito un’altra: la difficoltà di conquistare visibilità nel “mare magnum” di internet ed i costi per adeguarsi all’innovazione tecnologica.
È soprattutto la piccola editoria che non trova risorse economiche tali per affrontare e supportare tale cambiamento tecnologico, fondamentale per la sopravvivenza stessa della propria attività.
Rileviamo, infine, la perdurante decrescita della pubblicità commerciale nelle testate periodiche medio-piccole, che devono far fronte non solo alla crisi economica delle aziende che fanno pubblicità, ma anche all’accaparramento delle entrate pubblicitarie da parte delle televisioni e delle grandi aziende editoriali.
Tirando un po’ le somme quindi…
Nel nostro precipuo comparto, una minima percentuale annuale di “mortalità” dei periodici (acuita, però, negli ultimi due anni) è, in un certo senso, fisiologica.
Il piccolo editore, che non ha alle spalle gruppi economici o finanziari, che non ha accesso ai finanziamenti per ristrutturazioni aziendali o per gli ammortizzatori sociali, in caso di difficoltà economica è costretto a chiudere l’attività.
Quello che, invece, dà proprio il sentore della crisi è il fatto che, ogni anno, tali “fisiologiche” cessazioni venivano compensate, sul piano nazionale, con la nascita di nuove iniziative editoriali.
Ora questo non avviene più, o almeno solo in parte. Ora, il piccolo editore (o l’aspirante tale) non rischia più e non alimenta, quindi, il rinnovarsi del panorama editoriale italiano.
A che punto sono il lavori per la riforma dell’editoria e per l’istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione?
Dopo un primo “impasse” della legge, la cui proposizione era programmata per il settembre scorso, ora sembra che questa possa viaggiare speditamente verso l’approvazione. La commissione Cultura della Camera ha deliberato un “testo base” (che racchiude le due Proposte di legge presentate) e ciò, credo, accelererà l’approvazione.
Quali sono le vostre priorità in questa situazione?
Come prospettato in precedenza, l’importante è che la nuova legge, non solo razionalizzi, semplifichi e renda stringenti i requisiti di accesso ai contributi diretti, ma non si limiti solo a questo ed abbia, per così dire, un respiro più ampio, prevedendo e finanziando (cosa fondamentale!) anche altre forme di sostegno ed incentivo per tutta l’editoria: agevolazioni per investimenti pubblicitari, in particolare sulla piccola e media editoria cartacea e elettronica; per innovazioni tecnologiche e digitali delle redazioni; per compensare i costi di diffusione e distribuzione, anche postali… Ma riprenderemo il discorso in un’altra domanda.
Come giudica in tal senso il lavoro svolto dal governo nel corso dell’ultimo anno?
È encomiabile l’impegno del Governo, ed a questo punto del Parlamento, a mettere mani in un settore, così vitale per lo sviluppo del pluralismo e della coscienza civile, regolato ancora da leggi del 1981, del 1990 e, la più recente, del 2001.
Il dado è tratto, ora speriamo che esca anche un bel 6!
La proposta di legge per l’editoria è stata approvata dalla Camera e l’on. Rampi ha detto di sperare che la riforma sia approvata entro l’estate: secondo lei i tempi saranno rispettati?
Se tutti faranno il proprio lavoro, mi riferisco non solo al Governo o ai parlamentari ma anche alle parti sociali interessate, l’obiettivo è a portata di mano. Occorre, però, la sensibilità dei nostri governanti alle esigenze vere che provengono dal settore.
Quali sono i punti che potranno segnare la ripresa dell’editoria italiana?
I finanziamenti e le agevolazioni. Non si può fare una riforma senza soldi… e la previsione di un Fondo ad hoc, che racchiuda tutte le svariate forme di sostegno oggi sparse tra vari dicasteri, di durata pluriennale e – speriamo – stabile annualmente è un buon inizio.
Ci sono delle criticità, a suo giudizio, che non sono state inserite nel testo di riforma o che avrebbero bisogno di essere più approfondite?
Riprendo un accenno fatto in precedenza: le tariffe di spedizione postale per i prodotti editoriali.
Fino al 2010, per capirci, tutte le testate distribuivano in abbonamento postale a costi accessibili, in relazione alle varie tipologie di editori.
Questa possibilità favoriva non solo il mercato delle piccole e medie imprese, ma anche l’opera delle onlus di qualunque natura, alle quali era possibile sviluppare la ricerca di fondi non solo per gli scopi che si prefiggevano, ma anche per mantenere in piedi un intero sistema economico con i suoi dipendenti e tutto l’indotto che generava.
Il venir meno del contributo per le agevolazioni postali ha mortificato interi settori, non permettendo più ed essi di continuare a crescere. Anche la soluzione successiva, consistente negli Accordi tra editori e Poste, ha portato comunque ad un tariffario insostenibile, in particolare per l’editoria no-profit.
Questo, ripetiamo, è solo un esempio dell’effetto determinato dalla contrazione dell’intervento pubblico. Risulta, perciò, quanto mai opportuno e urgente un intervento legislativo che si proponga di intervenire a sostegno dei settori editoriali più deboli.
Non basterà un solo intervento, perché riteniamo che il problema postale dovrà essere affrontato in una legge di sistema che si proponga l’obiettivo di recuperare almeno in parte i numeri di spedizione in abbonamento precedenti al 2010.
Nello specifico sulla riforma delle leggi sull’editoria in esame, l’Uspi ha sottolineato, in primo luogo, la necessità e l’urgenza di risolvere la discriminazione tariffaria postale che si è venuta a creare per le Associazioni senza fine di lucro (categoriali, sociali, territoriali…) che non sono onlus.
Ci domandiamo perché, ad esempio, pubblicazioni come “Civiltà della tavola”, “Gli amici degli scacchi”, “Cremona produce”, “Bellunesi nel mondo”, “Il presepio”, “Il podologo” oppure “Italiani di Libia” , tanto pr fare alcuni esempi, debbano pagare una tariffa postale molto più esosa de “Il Sole 24 ore”, o “Panorama”, “L’Espresso” e gli altri grandi quotidiani e periodici.
Ci auguriamo ancora che una siffatta norma, di pura equità, possa essere recepita nel provvedimento.
In questo contesto, la campagna Meno giornali Meno liberi ha prodotto i risultati sperati?
La campagna “Menogiornali Menoliberi” ha avuto il merito di informare e, direi, “formare” l’opinione pubblica su cosa siano veramente i contributi pubblici alla stampa, quali le loro finalità, perché esiste ancora la necessità di sovvenzionare il settore.
Di fronte ad una generalista (e, direi, epidermica) opinione pubblica del contributo alla stampa come contributo inutile o addirittura “sporco” o “truffaldino”, nata da campagne denigratorie e fuorvianti, Menogiornali Menoliberi ha saputo, non solo contrastare detta opinione, ma ha portato a riflettere politici e comuni cittadini sul valore del pluralismo informativo.
Perché il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione è diventato necessario per la sopravvivenza del comparto?
Mi ricollego alla risposta precedente.
I contributi all’editoria sono sorti per incoraggiare la democrazia informativa locale e cooperativa (che è nata spesso per rilevare testate in fallimento ed a rischio chiusura).
L’idea di un sostegno statale nel campo dell’informazione fu perseguita per mettere in pratica gli alti valori dettati dalla nostra Costituzione, l’articolo 3 e l’articolo 21. In sostanza, lo Stato si impegnava, concretamente, a tutelare il pluralismo informativo, non impedendo ai grandi gruppi editoriali di fondare quotidiani e periodici, ma permettendo – appunto con contributi diretti – di entrare e competere sul mercato agli editori “puri” (no profit e cooperative), con risorse economiche e finanziarie decisamente inferiori. Nel corso degli anni, poi, si sviluppò anche la necessità di mettere un contrappeso ad un mercato pubblicitario sbilanciato verso i maggiori network televisivi.
Così fu nel 1981 (legge 416) e nel 1990 (legge 250). Così è tutt’oggi: oltre il 51% dei ricavi pubblicitari è appannaggio dell’emittenza televisiva, con buona parte a vantaggio di RAI e Mediaset, e di seguito SKY, il 16,5% dei periodici ed il 19,1% dei quotidiani. (Attenzione! Occorre una precisazione: anche questi dati statistici sono frutto di rilevazioni effettuate sui quotidiani e periodici di grande tiratura, e non sui giornali medio-piccoli).
Fu una scelta politica, dunque, rinnovata nel tempo con sempre più attenzione alla trasparenza ed alla razionalizzazione nella gestione dei Fondi, per evitare abusi e distorsioni. Un lungo processo che ha visto l’Uspi essere parte attiva e collaborativa con la PCM e le forze parlamentari per generare un percorso virtuoso di elargizione dei contributi pubblici.
L’attuale Fondo va nella direzione di preservare tali diritti.
Detto ciò, in conclusione, sarebbe fuorviante non sottolineare che i contributi diretti riguardano solo meno di un centinaio di testate. Il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione dovrebbe avere, come prima accennato, un respiro più ampio e incentivare l’occupazione di giornalisti e grafici editoriali, rendere sostenibili i costi di diffusione (vedi le tariffe postali), e quelli per l’adeguamento, sempre più frequente, alle nuove tecnologie digitali, per tutta la piccola e media editoria, già attiva, cartacea e telematica, non solo le startup.