C’era un volta “Professione reporter”. Poi vennero i tempi del Watergate e gli splendori del Washington Post. Oggi è la volta di Robert Redford in “Truth” e di Michael Keaton nella redazione di “Spotlight”. La professione più bella del mondo, quella di giornalista, secondo i miti d’un tempo e per qualcuno ancora oggi
Peccato che proprio dagli States arrivi una doccia che più gelata non si può (e dalle nostre parti diventa di sicuro ghiacciata). Secondo una speciale classifica stilata da “CareerCast.com”, il principale sito a stelle e strisce specializzato in lavoro, professioni & carriere, per il terzo anno consecutivo i giornalisti si confermano saldamente in fondo alla hit. Anzi, quest’anno è da vero Guinness: dal 196° posto, infatti, finalmente nel 2016 hanno raggiunto l’ultima, ambita posizione, il 200° gradino nella scala del lavoro.
La ricerca, rilanciata dal “Wall Street Journal”, ha preso in considerazione “parametri come l’ambiente di lavoro, il livello di stress, la richiesta e la possibilità di essere assunti, oltre al guadagno medio” ed è stata effettuata incrociando i dati del ministero del Lavoro Usa e di alcune agenzie governative impegnate nel job founding. A rendere sempre peggiori le condizioni di chi lavora nel settore – viene spiegato da Tony Lee, editore di CareerCast – ci sono “prospettive lavorative ulteriormente diminuite, lo stipendio medio che continua a scendere mentre crescono le ore di impiego, rendendolo nell’insieme il lavoro più stressante”.
In posizioni migliori, ad esempio, pompieri e tassisti, costretti in genere a turni di lavoro non proprio invidiabili e a buone dosi di stress; ma anche militari e boscaioli. Ecco un altro commento degli analisti di CareerCast: “il reporter che lavora per la carta stampata continua a precipitare sempre più in basso nella classifica e ora tocca il fondo, perché ha ormai ben poche prospettive di lavoro, bassi salari e opera in un settore caratterizzato negli ultimi anni da massicci licenziamenti. La retribuzione media indicata in classifica è pari a 37 mila dollari annui e le prospettive di crescita sono sotto lo zero, ossia – 0,9 per cento”.
Se negli Usa piove a diritto, da noi è uno tsunami. E probabilmente la mitica “professione reporter” ha bucato tutti i fondi delle classifiche. Commenta Federico Fubini per il sito “Il Caffè”: “una frequentata agenzia di lavoro statunitense ha bollato a morte il mestiere del giornalista come carriera a rischio di scomparsa entro dieci anni, qualificandolo già oggi come la peggior occupazione che un giovane possa scegliere”.
E fornisce alcuni dati, che la dicono lunga sullo sconfortante raffronto tra l’Italia e gli altri paesi occidentali: “In Italia il primo problema è la sovrappopolazione: se, negli Stati Uniti, una persona su 5.300 fa (o prova a sopravvivere con) questo mestiere, sul nostro territorio si contano più di 100 mila giornalisti, circa 1 ogni 500 cittadini”. In Francia il rapporto è di 1 ogni 1.800 abitanti, in Gran Bretagna 1 ogni 1.600 abitanti.
Il dato italiano fornito da Fubini, comunque, comprende anche la categoria dei “giornalisti pubblicisti”, i quali fanno tutt’altro lavoro, e in genere sono dei professionisti (avvocati, medici, docenti universitari), un vero boom da quando il senatore Dc Guido Gonnella, oltre cinquant’anni fa, nel ’63, varò l’albo dei Pubblicisti, che ora sono ben 75 mila, a fronte di 30 mila professionisti (cioè coloro i quali sono regolarmente assunti presso una testata).
Scrive ancora Fubini: “quella che un tempo era la regola oggi è la casta: è la classe dei giornalisti assunti, che possono contare su un reddito lordo medio intorno ai 60 mila euro annui. Ma la categoria conosciuta come quella degli ‘articolo uno’ (i redattori con contratto giornalistico, ndr) e degli ‘articolo due’ (i collaboratori fissi) ha una popolazione in drastico calo: nel 2009 erano 18 mila, nel 2013 appena 15 mila. Di questo passo le redazioni italiane saranno desertificate entro il 2030”.
E continua con altre cifre significative: “Negli stessi cinque anni (2009-2013) i giornalisti autonomi sono lievitati di 10 mila unità e l’esercito dei precari ha doppiato i contrattualizzati, superando agilmente quota 30 mila. Costoro contano su retribuzioni di poco superiori ai 10 mila euro lordi annui, pagamenti che non di rado vengono erogati (se e quando vengono erogati, ndr) a fronte di prestazioni identiche a quelle dei giornalisti assunti”.
Si tratta dei precari a vita, coloro per i quali la strada del giornalismo è fatta di lacrime e sangue, un panino e 3 euro al pezzo, i free lance che sono liberi solo di sgobbare, rischiando in proprio, per un piatto di lenticchie scadute. “La fascia alta dei morti di fame”, li ha etichettati Michele Masneri sul Foglio.
E se il fantasioso Beppe Severgnini è ottimista sul futuro, vedendo (ma solo lui e pochi intimi) “un momento economico pessimo ma un momento professionale ottimo: Internet – gongola – è un moltiplicatore di talenti e possibilità”, per fortuna Pietro Saccò, opinionista di “Avvenire”, ci porta con i piedi per terra: “il virus mortale che alligna nel giornalismo – osserva – non fa più notizia: nel silenzio e nell’indifferenza spariscono quotidiani, riviste, tivvù locali e, un po’ dappertutto, posti di lavoro; lo schema economico tradizionale della testata finanziata da lettori e inserzionisti non funziona più, Internet non è ancora (nessuno sa se né quando lo sarà) una fonte di guadagno. Anzi, finora è stata causa determinante della perdita di valore del lavoro di giornalista”.
A fine 2015, in un convegno promosso alla Biblioteca Nazionale di Roma da “Ossigeno per l’Informazione” sui giornalisti censurati e minacciati dalle mafie (“La censura in maschera”), il docente di “Informazione Audiovisiva” dell’università di Madrid, Mario Garcia de Castro, descrisse a tinte più che mai fosche la realtà del suo Paese, stretto tra una “Ley Mordaza”, la legge bavaglio per la stampa varata dall’esecutivo Rajoy, e una pesantissima situazione di crisi nel settore editoriale, dove ormai i giornalisti vengono licenziati come le mosche e la censura è ormai quotidiana (tanto più per i concreti pericoli di perdere il lavoro).
E osservò: “certo, noi stiamo messi malissimo, ma voi non state bene. Anzi…. stando a quel che sento da tanti vostri colleghi, circa la fortissima precarietà del lavoro, le condizioni economiche che investono gli occupati, senza contare querele e citazioni civili che servono a intimidire quei pochi ormai che osano indagare sui Palazzi del Potere”.
Osserva un giovane aspirante giornalista della Luiss di Roma: “Sono partito con l’idea fissa di fare giornalismo per pura passione. Nessuno me l’ha potuto togliere mai dalla testa. Ma adesso è come se mi sentissi sempre più solo. Vedo nero: non è il posto fisso quello che volevo, ma poter lavorare, dare il meglio di me. Però ora è come se volessi scalare una montagna senza alcun attrezzo, senza funi, senza ganci, e mentre è cominciata una bufera da brividi. E’ così che mi sento: la voglia di fare, ancora forte, ma la mancanza assoluta di riferimenti, di certezze minime, e ognuno che cerca una soluzione mentre sarebbe necessario mettersi insieme per trovarla, quella via d’uscita”.
E commenta un altro ‘aspirante’: “oggi come oggi vedo il precariato a vita. Alcuni dicono, fai come negli Stati Uniti, che ti trovi un altro sbocco, presso le aziende che hanno bisogno di comunicare o nella pubblicità e nel marketing. Non era quello che volevo fare, ma comunque anche lì la strada è complessa e hai bisogno delle solite spinte, di amici che contano e così via. Sennò che fai? Ti metti in proprio? E dove scrivi? Chi ti paga? Free lance a vita? Due soldi e sotto i ponti”.
E le storie dei “tutelati” – chissà ancora per quanto – non rallegrano certo. Osserva un redattore di via Solferino: “negli ultimi mesi ci sono state decine di scioperi un po’ in tutte le testate. Al gruppo Caltagirone hanno deciso drastici tagli per i tipografi, e a breve colpiranno le redazioni in modo massiccio; in quel che resta del gruppo Corsera è in arrivo la bufera e se non salta fuori un Cavaliere bianco sarà notte fonda. Abbiamo le nostre tutele, ma il banco rischia di saltare e lo tsunami in arrivo potrebbe buttare tutto”.
Nota un giornalista che per trent’anni ha fatto cronaca, quella “tosta” e lavorato in tre redazioni. “Ancora qualche anno e poi vado in pensione. Ma adesso è come lo fossi già. Sono praticamente in letargo. Non ho più la forza di scrivere i pezzi di una volta, di qualche anno fa. Dopo un paio di querele mi hanno guardato storto, come fossi un appestato. Ma chi me lo fa fare più… meglio scrivere di tempo libero e ricette. Tanto ormai è anche questo che la gente vuol leggere”.
Vecchi e giovani un tempo uniti nella lotta. Oggi nella più deprimente rassegnazione.