Creare un web-ombra che sia immune a ogni bavaglio e sappia restituire a Internet il fascino della sua promessa originale: l’inarrestabilità. A questa missione, resa ancor più attuale dai recenti episodi di censura (dall’Egitto alla Siria), si dedica una piccola ma agguerrita comunità di attivisti digitali. Ad accomunarli è la convinzione che negli ultimi due decenni Internet abbia piegato la testa di fronte alle logiche commerciali del sistema ISP (Internet Service Provider), che ha concentrato nelle mani di poche grandi aziende il potere di gestire il traffico di enormi quantità di dati.
Nel suo numero di marzo, la rivista Scientific American accende i riflettori su una delle alternative a cui l’attivismo digitale crede di più: le cosiddette “wireless mesh network”, reti nelle quali gli utenti si collegano direttamente gli uni agli altri senza l’intermediazione di service provider. Lo sviluppo di queste reti (che in italiano possiamo definire “a maglia”) presenta diversi vantaggi, ma anche una serie di sfide che varia di volta in volta a seconda dell’utilizzo che se ne immagina. Questa variabilità emerge già nelle anime dei due progetti di mesh networking ad oggi più avanzati: Commotion (finanziato dal Dipartimento di Stato Usa) e FreedomBox (creatura figlia della Free Software Foundation). Come spiega chiaramente Julian Dibbell, autore dello speciale di Scientific American, non si tratta di ripartire daccapo (non sarebbe realistico), ma piuttosto di creare una rete-ombra a protezione della stessa Internet e di tutti i suoi utenti.
Negli ultimi due decenni, infatti, la Rete è cresciuta secondo il modello dei grandi Internet service provider, in cui la macchina del cliente non è più un nodo su cui fare affidamento, ma un ramo morto configurato solo per mandare e ricevere tramite macchine di proprietà del provider. In pratica – spiega ancora Dibbell – oggi la maggior parte degli utenti individuali esiste ai margini del network ed è connessa agli altri solo attraverso uno di questi provider: se il collegamento viene bloccato, per queste persone l’accesso a internet scompare. Piuttosto che rafforzare le difese immunitarie di Internet, insomma, il sistema ISP è diventato l’interruttore d’emergenza con cui spegnerla.
È per contrastare questi pericoli che alcuni gruppi puntano sulle potenzialità dei “wireless mesh network” (reti wireless a maglie), semplici sistemi che connettono gli utenti finali gli uni agli altri e aggirano automaticamente ogni tipo di blocco e censura dando a tutti i nodi lo stesso peso. Il mesh networking è una tecnologia relativamente giovane, ma il suo principio è lo stesso che ha ispirato la nascita di Internet, ovvero l’instradamento di pacchetti di dati in modalità “store-and-forward” (“immagazzina e rinvia”), in cui ogni computer connesso alla rete è in grado non solo di mandare e ricevere dati, ma anche di fare affidamento sugli altri computer connessi. Una rete a maglie, in particolare, fa in modo che tutti gli utenti agiscano come “staffettisti” dei dati, abbandonando i panni del “consumatore di Internet” per vestire quelli del “provider fai-da-te”.
Negli Stati Uniti il mesh networking è promosso soprattutto dalla New America Foundation, influente think tank che è riuscito a ottenere un finanziamento dal Dipartimento di Stato di 2 milioni di dollari per il suo progetto: Commotion. Il principale ideatore è Sascha Meinrath, ex studente della University of Illinois e fautore della Champaign-Urbana Community Wireless Network, una delle prime reti a maglia degli Usa. Nel 2005 portò la tecnologia nella Louisiana devastata dall’uragano Katrina, allestendo una rete mesh che riabilitò le telecomunicazioni lungo un’area di 60 chilometri all’indomani della tragedia.
“L’obiettivo a breve termine del progetto è sviluppare una tecnologia capace di circumnavigare ogni tipo di interruttore-killer o sorveglianza centrale”, ha spiegato Meinrath. Per questo, insieme ad altri progettisti, ha creato un prototipo chiamato “Internet in valigia”, un kit composto dallo stretto indispensabile per mettere in piedi delle comunicazioni wireless e sufficientemente piccolo da sfuggire a ben altre maglie, quelle dei controlli doganali. Una volta introdotto nel territorio di un governo repressivo, i dissidenti e gli attivisti sarebbero in grado di fornire una copertura Internet inarrestabile. Il sistema contenuto nella valigetta è abbastanza semplice da installare e utilizzare: secondo Meinrath, qualsiasi appassionato di tecnologia sarebbe capace di metterlo in funzione. L’obiettivo finale, però, è rendere il sistema ancora più accessibile alla maggioranza. Come? “Sintetizzando questo passaggio in una semplice applicazione che pigiando un tasto faccia diventare i nostri stessi dispositivi (computer, smartphone, tablet, wireless router, e così via) parte integrante dell’infrastruttura”, ha spiegato Meinrath.
Ancora più rivoluzionario è FreedomBox, progetto avviato da Eben Moglen, professore di Legge alla Columbia University di New York. Anche in questo caso si tratta di un prototipo grande quanto un mattone e dal costo di 149 dollari (destinato, dicono i creatori, a scendere presto a meno della metà). Al di là della promessa di libertà della scatola, la vera rivoluzione è nei codici di programmazione che si porta dietro: se inseriti nelle CPU dei diversi dispositivi, questi diventerebbero infatti delle FreedomBox a pieno titolo. In questo modo – immagina Moglen – ogni oggetto dotato di indirizzo IP (tra cui anche i più recenti frigoriferi) potrebbe entrare in rete e aprire di fatto la porta alla decentralizzazione non solo del traffico delle comunicazioni, ma anche dei dati stessi, rendendo così realtà l’Internet delle Cose. Ovviamente si tratta di uno scenario ipotetico, la cui fattibilità dipenderà dalla “volontà politica delle nuove generazioni”.
La condanna, qui, è anche per servizi cloud come Facebook e Google, che secondo gli attivisti minacciano la privacy e la libertà d’espressione almeno quanto la concentrazione del traffico nei service provider. La speranza di Moglen e colleghi è che i giovani si rendano conto che non vale la pena barattare privacy e libertà in cambio della facilità di utilizzo, e che scelgano di dare vita a un movimento politico per certi versi somigliante a quello ambientalista. Di strada da fare ce n’è molta – ammettono dalla FreedomBox Foundation – ma a quanto pare ci sono schiere di giovani programmatori pronti a darsi da fare. Se davvero ci sarà un web-ombra, d’altronde, spetterà a loro il compito di costruirlo, mattone dopo mattone.
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