Meno di sette minuti per approvare la manovra in Consiglio dei ministri. Solo 60 giorni per il voto definitivo in Parlamento: dal 25 giugno al 24 agosto. Ma i 60 si ridurranno a 40, perché nessuno mai riuscirà a far sedere nelle Camere i deputati e senatori italiani dopo il 5 o 6 agosto.
E così comincia la storia di una legge, che cambierà in profondità la costituzione materiale del paese. Il fondo dell’editoria è stato raschiato. Nel Decreto 112/2008, all’art. 44, si scrive – in un testo di semplificazione legislativa, che impropriamente coinvolge anche materie coperte da norma primaria, come i «criteri di erogazione» dei contributi all’editoria – che i decreti relativi alla «semplificazione normativa sono emanati senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica e tenuto conto delle somme stanziate nel bilancio dello stato per il settore dell’editoria, che costituiscono limite massimo di spesa».
La nuova norma sostiene, pertanto, limitatamente ai contributi diretti, poiché a quelli si rivolge il testo legislativo, che «lo stanziamento» è «limite di spesa», pur parlando di un fondo già – per opera del precedente governo – sottostimato di 170 milioni, che oggi viene quasi raso al suolo.
Ma vediamo come stanno le cose.
Nel 2008, i contributi postali, che si danno a tutte le imprese editoriali e si concentrano pericolosamente nelle mani dei grandi gruppi, rappresentano un costo di 305 milioni. Pochi sanno che il maggiore percettore di aiuti statali tra gli editori è il gruppo Mondadori, con oltre 20 milioni di euro l’anno (dati 2005), come contributi postali. E seguono a ruota Il Sole-24 Ore con oltre 17 e il gruppo RCS con 13. I grandi gruppi, tutti insieme, la fanno da padrona.
E’ sostenibile una situazione così indecorosa, che farebbe morire qualche decina di testate, mentre si danno fior di soldi a gruppi quotati in borsa, che vanno ad arricchire i dividendi versati agli azionisti?
Sarebbe un mostruoso paradosso, di cui potrebbe gioire solo il giullare genovese, autore dei referendum sui contributi alla stampa.
Lo stesso governo deve acquistare consapevolezza della ferita democratica di cui sarebbe responsabile diretto, se si verificasse la crisi di tante testate, anche storiche, che danno sostanza alla democrazia dell’informazione.
I tempi, in un percorso di guerra come quello del decreto finanziario, sono un capestro. Ma occorre che la saggezza prevalga, se non si vuole chiudere una pagina importante della storia culturale del paese. Per quanto mi riguarda non ci capisco più nulla. Dopo il diverbio con Schifani nemmeno Grillo mi diverte più
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