L’Espresso, in un ampio servizio dedicato alla Rai, mostra le cifre di quella che viene definita “l’orgia del potere”, ovvero una “radiografia della scandalosa gestione della televisione pubblica”. Una tv di Stato con un esercito di 13.248 dipendenti e che conta anche oltre 43mila contratti di collaborazione. Centoquattordici parrucchieri, 67 addetti ai camerini, 66 arredatori, 61 falegnami, 18 costumisti, 12 meccanici, 34 consulenti musicali, 36 scenografi, un’orchestra leggera di 16 elementi (indipendente da quella sinfonica della Rai di Torino con 116 musicisti) che non viene utilizzata da anni. Numeri che vengono dall’interno della Rai, perché riportati nero su bianco in un corposo documento dal titolo “Situazione dell’organico del Gruppo Rai” messo a punto dal cosiddetto Comitato istruttorio per l’Amministrazione, emanazione diretta dell’attuale Cda Rai e composto in formazione bipartisan da Sandro Curzi, Marco Staderini, Nino Rizzo Nervo e Giuliano Urbani.
E mentre slittano le nomine del prossimo Cda si rincorrono le iniziative a favore dell’abolizione del canone Rai, visto sempre più, come una tassa ingiustamente pagata dagli italiani. Prima c’è stata la petizione popolare promossa dall’Utelit per abolire il canone. Un mese fa è stata avviata dal Consiglio Nazionale degli Utenti dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni un’indagine mirante a verificare le modalità di utilizzo delle risorse che derivano dal canone. L’11 maggio, in una diretta web, Beppe Grillo ha dichiarato che lancerà un referendum per proporre la disdetta del canone alla Rai. “Per far chiudere questa Rai non è necessario cambiare le leggi, è sufficiente non pagare più il pizzo” afferma il comino e continua, “Un solo canale, senza pubblicità, senza interferenze politiche, al servizio dell’informazione e dei cittadini. Un canale pubblico con un direttore come Marco Travaglio, per fare un esempio. Un canale di cultura, inchiesta. Questo è quello che vorrei”.
Intanto, proprio su questo tema si è espresso il neo sottosegretario di Stato con delega alle Comunicazioni, Paolo Romani: “In questo momento il canone è una tassa a tutti gli effetti e quindi, se la si abolisse, vi sarebbe un’altra risorsa che proviene dal bilancio dello Stato a favore della Rai. I cittadini alla fine non pagherebbero di meno, a meno che qualcuno decida di non dare più le risorse del canone che adesso vanno alla Rai. Ma significa ridimensionare per almeno due terzi il servizio pubblico”. “Il problema non è il canone, ma capire se il servizio pubblico possa essere garantito da un’unica forma di redditività, che può anche essere solo il canone o solo la pubblicità. Modifiche in questo senso devono però tener conto dei numeri, quando parliamo di canone ricordiamo che stiamo parlando di circa 1,3 miliardi di euro”.
Fabiana Cammarano
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