Su Facebook basta politica “per evitare conversazioni divisive”. A quando il ban sul calcio?

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“Qui non si parla di politica”. Il cartello d’antan sarà presto affisso sulle porte mutevoli di Facebook. Lo ha annunciato il suo padrone, il signor Zuckerberg, il quale – novello Trimalcione, tanto ricco e opulento quanto marchiano e culturalmente carente – vorrebbe far credere al mondo di riportargli la pace vietando d’imperio che la gente litighi furiosamente sul web.

Dal momento che viviamo in un’epoca che tenta di nascondere tutto e di tutto fare unica e sola ingollatura, i motivi alla base della decisione del social blù sarebbero quelli di limitare le discussioni, evitare che gli utenti si arrabbino tra di loro; lui ci pensa a noialtri, magari che non ci facciamo salire la pressione infervorandoci in discussioni social su questo o quel tema della politica, ché poi cominciamo poi a parlare di ambienti tossici e altre amenità che tanto vanno di moda in specie nei Paesi anglosassoni e fanno pubblicità negativa.

Se solo sapesse, Zuckerberg, che in Italia si litiga di più per una sostituzione calcistica (della staffetta Rivera e Mazzola se ne sta parlando ancora a distanza di 50 anni da Messico ’70) che per un travaso di parlamentari in questa o quella maggioranza, farebbe bene – sempre che il suo obiettivo sia tutelare la salute nervosa della merce da proporre al mercato degli inserzionisti – a chiudere, una volta e per sempre, anche gli account dei profili sportivi. In Italia, sappia Zucky, si litiga di più tra juventini e antijuventini che tra destra, sinistra, centri e leghe.

Tangentopoli? No, Calciopoli! Non si dibatte più sui misteri di Gladio né sulle rivelazioni del dossier Mitrokhin ma si discute ancora, e animatamente, sul gol di Turone, su quello di Muntari, sul fallo di Iuliano su Ronaldo, sulla cento lire di Alemao.

La verità è che i social, dopo aver triturato la stampa drenandone i ricavi pubblicitari (ultima trimestrale 29 miliardi di dollari…), vorrebbero avere loro la presunzione di decidere non solo di cosa si debba parlare ma come lo si debba fare, e di farlo agitando “il bene di tutti”. Chiamiamolo paternalismo, per evitare altre e più gravi definizioni che pur si sarebbe tentati di evocare quando si legge che Fb “limita la libertà d’espressione per tutelare quella degli altri”, arrogandosi quindi i compiti che sarebbero quasi giurisdizionali.

La politica, ormai screditata e legata all’avanspettacolo dei video web, è nel mirino. Presto toccherà al calcio?

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