Sono complessivamente sette gli emendamenti approvati ieri in commissione Bilancio al Senato al decreto legge sulla manovra economica, sul quale oggi l’aula di Palazzo Madama voterà l’ennesima fiducia al Governo prima di ritrasmettere il provvedimento a Montecitorio che dovrebbe metterlo ai voti martedì. E rispetto al testo già licenziato dalla Camera, si registrano pure 66 correzioni che l’esecutivo ha chiesto di fare in sede di “coordinamento formale”: errori materiali e refusi nei riferimenti e nel numero dei commi «che producono conseguenze spesso in contrasto con gli obiettivi delle norme stesse».
Non c’è traccia, invece, di alcuna modifica agli articoli 44 e 60, che stabiliscono per decreto la morte della libertà d’informazione. E non c’è nemmeno nessun refuso, stavolta. Qualora non si raggiungesse un accordo per il superamento della norma che mette in discussione il diritto soggettivo ai contributi diretti (cioè l’ottenimento dallo Stato di risorse certe e commisurate alla tiratura e alla diffusione dei giornali) all’editoria cooperativa, non profit e di partito e a quella che prevede nel triennio tagli complessivi per 357,3 milioni di euro (83,09 nel 2009, 100,44 nel 2010 e 173,8 nel 2011) a un fondo già incapiente, infatti, sarebbero prossime alla chiusura numerose testate, tra cui Liberazione, il Manifesto, Il Secolo, l’Avvenire, La Padania; e perfino l’Unità andrebbe incontro a inattesi problemi economici.
Il paradosso che conferma la tendenza, già manifestata dalla maggioranza, di favorire lobby di potere come nel caso del maxi-condono ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici in causa con Poste Italiane, è che invece dovrebbero continuare ad essere erogati i contributi indiretti che fanno salve le tariffe agevolate postali di cui godono i grandi gruppi editoriali che macinano utili e si quotano in borsa. Come dire: oltre il danno, la beffa. E pure Radio Radicale, che per la sua caratteristica di garantire il servizio di trasmissione delle sedute parlamentari da sola riceve circa 30 milioni di euro (la quasi totalità dei contributi radiofonici), non dovrebbe perdere i suoi cospicui finanziamenti.
Per tutti gli altri adesso, più che a possibili ritocchi estivi, l’ultima speranza va riposta nella finanziaria di settembre: in quella sede, infatti, il governo potrebbe finanziare il credito d’imposta e il credito agevolato per gli investimenti in innovazione tecnologica delle imprese editoriali. Ma nonostante le proteste della Fnsi a cui si sono unite Cgil-Cisl e Uil (che hanno chiesto la modifica dell’articolo 44 in una lettera inviata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria Paolo Bonaiuti), l’annuncio del ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, «il governo non intende fare ulteriori modifiche», chiude per ora la porta a qualsiasi trattativa. Dopo la norma anti precari e quella sugli assegni sociali, adesso il governo che nonostante la propaganda tremontiana ruba ai poveri per dare ai ricchi, sembra dunque chiudere il cerchio mettendo anche il bavaglio alla pluralità dell’informazione.
«Andiamo incontro a un taglio pesantissimo sia da un punto di vista quantitativo che da un punto di vista qualitativo». E’ l’allarme lanciato dal direttore del Manifesto Gabriele Polo, che invita a non «rassegnarsi» e propone: «Anzichè dare il via a tante piccole manifestazioni sui singoli provvedimenti, bisognerebbe invece organizzare un appuntamento generale che contesti globalmente il progetto economico del ministro Tremonti che colpisce i precari, gli assegni sociali e promette tagli all’editoria».
E, per una volta, dalla stessa parte della barricata sta anche Flavia Perina del Secolo d’Italia: «Quello dei tagli all’editoria – dice- è un provvedimento sbagliato e spero che si trovi il modo di correggerlo. Il centrodestra, che rivendica per questo Paese una rivoluzione del merito, non può pensare di spalmare tagli indiscrimanati su due-trecento testate. Dovrebbe invece premiare quei giornali che hanno un ruolo effettivo nella circolazione delle idee e colpire solo le testate fantasma che prendono contributi senza averne il diritto».
Da destra, deluso anche il responsabile dell’informazione di Alleanza Nazionale Alessio Butti: «La manovra economica in discussione al Senato è in larghissima parte condivisibile. Tuttavia non posso nascondere la profonda delusione per i tagli apportati indiscriminatamente all’editoria che mettono seriamente nei guai decine di giornali venduti in edicola, che hanno migliaia di abbonati e occupano centinaia di giornalisti ed operatori dell’informazione». Secondo il senatore del Pdl, infatti, «la Finanziaria 2008 era già sufficientemente punitiva nei confronti dell’editoria e il centrodestra avrebbe dovuto invertire la rotta anzichè proseguire su quella china decurtando le somme anche sul 2009 e sul 2010. Ma quello che più avvilisce è il fatto che un’adeguata politica di risparmio potrebbe essere attuata tagliando i giornali finti che, per intenderci, arrivano in Senato o alla Camera al mattino e finiscono ancora piegati nel cesto della raccolta differenziata».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Roberto Natale, che prima precisa, «un conto è il rigore per colpire le finte cooperative su cui siamo pronti a collaborare, tutt’altro il taglio indiscriminato», e poi avverte: «Non ci facciamo affascinare dal clima culturale secondo cui ogni spesa pubblica rappresenti uno spreco, sia che lo sostenga Beppe Grillo sia che lo proponga il Presidente della Camera Gianfranco Fini». Secondo il sindacalista, infatti, «se la riforma dell’editoria annunciata da Bonaiuti partisse da un taglio così pesante che colpisce in modo particolare proprio quegli organi di informazione che fondano la loro ricchezza sulla forza delle idee, ci troveremmo di fronte a una riforma di fatto prima ancora di cominciare a discutere. E allora anche la parola sciopero non sarebbe proibita, anche perchè restano aperte le questioni del rinnovo del contratto e dei moltissimi lavoratori precari».
Intanto, mentre i “poveri” aspettando settembre per capire che vita vivere o di che morte morire, il consiglio di amministrazione di Cir (gruppo De Benedetti) ha approvato la scissione parziale delle attività di editoria da quelle industriali e finanziarie. Lo si apprende da una nota secondo la quale resterà a capo di Cir (la società scissa) la partecipazione di controllo nel gruppo Editoriale L’Espresso, mentre ad ogni azionista del gruppo verranno assegnate proporzionalmente azioni della società beneficiaria. «Queste operazioni vanno lette e studiate con attenzione – osserva il parlamentare dell’Italia dei Valori Giuseppe Giulietti – ma mi sembra nel segno della trasparenza e di una sempre più marcata separazione tra l’editoria e le altre attività. Un segnale incoraggiante per tutti colori che sono stanchi di un mercato che presenta troppi conflitti di interesse e dove spesso l’editoria è un’attività secondaria per trainare altre attività che nulla hanno a che vedere con il libero esercizio degli editori e dei giornalisti».Luca Marcenaro (Liberazione)
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