«È “fifty-fifty” mi diceva.
“Cinquanta e cinquanta.
A volte credo che Dio esista.
A volte no.
Vorrei credere nella vita ultraterrena.
Ma ho il timore che alla fine ci sia solo un tasto on-off.
Un clic, la luce se ne va.
E tu non ci sei più.
Per questo non mi è mai piaciuto mettere tasti di accensione sui prodotti della Apple”».
Walter Isaacson racconta al Corriere tormenti di Steve Jobs, il suo interrogarsi sull’aldilà.
È la prima intervista concessa a un giornale italiano dopo aver consegnato all’editore (in Italia Mondadori) la sua biografia del fondatore della Apple.
Lo incontro a Washington, all’Aspen, l’istituto di cui è presidente, dopo essere stato direttore di Timee capo della Cnn.
Parete di vetro a picco sulla rotatoria di Dupont Circle.
Isaacson è in ritardo. Lo sento parlare al telefono nella stanza a fianco.
Ci divide una sottile pannello prefabbricato.
Isaacson fa lunghe pause, ogni tanto usa espressioni d’incoraggiamento, alla fine saluta con voce calda.
Si affaccia sulla porta con un sorriso mesto: «Scusi il ritardo.
Ero con una persona della famiglia.
Piangeva.
È curioso: lui temeva di essere un estraneo per i suoi cari.
E invece ha lasciato un vuoto enorme».
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