L’annuncio della partnership tra le due sponde della net-economy è avvenuto virtualmente (in videoconferenza) ma ci si aspetta che almeno i propositi si rivelino concreti. Ed il convegno “High Level Conference on personal data protection” tenutosi lunedì in collegamento tra Washington e Brussels, non poteva essere cornice migliore per rendere nota l’intenzione di una cooperazione tra i due leader globali nella protezione dei dati personali dei netizens.
Il Commissario alla Giustizia europeo Viviane Reding ed il segretario del commercio Statunitense, John Bryson, in un comunicato congiunto, hanno puntualizzato l’obiettivo condiviso di “incrementare la fiducia dei consumatori e promuovere la continua crescita dell’economia della rete globale di internet e l’evoluzione del mercato comune digitale trans-Atlantico”. Dichiarazioni che
potrebbero suggellare un patto di collaborazione tra il nuovo ed il vecchio continente al fine di “raggiungere un’ulteriore interoperabilità dei nostri sistemi su un elevato livello di protezione”, ribadiscono i due rappresentanti. Lo scopo sarebbe quello di fronteggiare i rischi per la privacy prospettati dalle nuove tecnologie, software e piazze virtuali di condivisione su internet. Strumenti e spazi che, oltre a creare nuove opportunità di crescita economica, farebbero della raccolta delle informazioni degli utenti, voci di entrate finanziarie o “merce” di scambio per l’implementazione dei servizi offerti, non trascurabili.
Non è dato sapere che ruolo svolgano in tale intesa le recenti indagini avviate dalla Commissione Europea e dall’Antitrust Usa nei confronti del colosso del search engine, Google, per il presunto tracciamento degli utenti del browser web della Apple, Safari. Certo è che la sensibilità verso il tema della protezione dei dati degli utenti attraverso i nuovi media digitali è ora più che mai avvertita dalle Autorità Garanti, oltre ad essere oggetto di studio dei maggiori osservatori di
ricerca.
Una recente analisi pubblicata da European Network and Information Security Agency (ENISA), ad esempio, ha approfondito alcuni aspetti della “monetizzazione” delle informazioni personali cedute dagli utenti della rete, in relazione ad una transazione d’acquisto o alla scelta di aderire ad un servizio gratuito sul web. L’indagine si è prefissata, in particolare, di verificare se i consumatori fossero disposti a pagare un sovrapprezzo ai provider dei servizi offerti su internet, un mark-up imposto per bypassare la richiesta di ulteriori dati.
Ebbene su di un campione di 443 individui invitati in un laboratorio di Berlino solo 1 su tre (29%) avrebbe pagato tale supplemento mentre un esiguo 9% avrebbe sborsato denaro per bloccare la ricezione di e-mail pubblicitarie. Ma il risultato più significativo è che l’80% dei testati abbia scelto di aderire al servizio che raccoglieva il minor numero di dati personali.
Secondo l’inchiesta di ENISA, in base ai dati raccolti a livello europeo, il 47% dei fornitori di servizi online avrebbe trattato i dati personali dei consumatori come un bene commerciale mentre il 48% avrebbe ammesso di condividere tali informazioni con terze parti. Numeri che sono confluiti nella relazione della Commissione Europea, Communication on Digital Agenda of Europe, e volti a supportare la tesi della scarsa fiducia dei netizens, che secondo i vertici dell’Unione, rappresenterebbe il vero ostacolo da superare, nel breve termine, per garantire lo sviluppo dell’economia digitale europea.
Conclusioni in parte convalidate anche da un altro studio, stavolta statunitense, condotto da Pew Research tra gennaio e febbraio 2012. Dall’analisi di un campione di 1,729 utenti americani (tra i 18 e i 60 anni), è venuto fuori che il 65% disapproverebbe la raccolta di informazioni da parte dei motori di ricerca, anche se funzionali alla personalizzazione dei risultati. Solo il 29% sarebbe invece favorevole all’implementazione delle ricerche targettizzate anche a costo di venire costantemente monitorati dai rispettivi software o server, contro un restante 68% esplicitamente contrario ai sistemi di pubblicità mirata attivati durante la navigazione.
Si tratta di indagini atte ad evidenziare una linea di controtendenza rispetto all’era dell'”over-sharing” (iper-condivisione) inaugurata da social media come Facebook, il cui Ceo Mark Zuckerberg è riuscito in pochi anni a trasformare una piazza virtuale di incontro e interazione tra “amici”, in un autentico Moloch del marketing pubblicitario, sfruttando la sua funzione di barometro socio-culturale delle abitudini di socializzazione oltre che di consumo degli utenti.
Secondo eMarketer il noto social network con 800milioni di iscritti avrebbe ricavato dal “social commerce” più dell’85% del suo fatturato, nel solo 2011. Un trend che rende ancora più attuale l’esigenza di un patto di collaborazione transatlantico su regole per la privacy condivise specie se a risultarne interessate sono anche multinazionali del profitto come Google, Facebook, Amazon e Apple (servizi Newsstand, iTune etc) per citarne alcune.
Player internazionali che hanno non poca voce in capitolo nel mercato dei servizi online oltre che delle telecomunicazioni mobili in Europa, facendo della raccolta e gestione dei dati, una risorsa privilegiata per il proprio business.
Manuela Avino
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