Per arrivare a una riforma del settore editoriale occorre riscrivere le regole e valutare i punti di forza e, soprattutto, i difetti di un settore.
Così agli Stati Generali dell’Editoria s’è parlato sia di regole che di vizi e virtù dell’editoria italiana. Il professore Matteo Bonelli invoca un cambiamento copernicano nella concezione stessa delle “regole”: “Credo che ci sia un grosso vizio, non solo in Italia ma in tutto l’Occidente: le regole concepite solo come cartelli direzionali per gli obiettivi. Credo che le regole funzionano meglio se concepite come un sistema operativo che guida il comportamento delle persone”. Passare, così, da un sistema che indica obiettivi a uno che informa azioni e atteggiamenti: in pratica dai traguardi all’algoritmo.
Dopo di lui ha preso la parola il professor Ruben Razzante che ha fatto le pulci agli editori italiani, stabilendo quattro punti focali e dolenti: “Credo che si siano storicamente adagiati su una sorta di provvidenzialismo statale e questo è un governo che agisce in discontinuità col passato”. E ha aggiunto: “Bisogna comprendere quanti danni ha fatto il dirigismo partitocratico che ha imbalsamato l’editoria, erogando finanziamenti a pioggia non su base meritocratica ma su elementi non connessi a produttività, talora arbitrari e addirittura iniqui. Tante anomalie su cui il sistema s’è adagiato e impedito sviluppo modello business efficiente”.
Seconda critica: “Gli editori hanno tardato troppo a credere nella rete. Più di vent’anni fa l’unica strategia è stata solo la riproposizione del cartaceo sul web, senza valorizzazione. L’avvento di internet da opportunità è diventato zavorra perché svalutazione opera giornalistica”.
Terzo elemento, spiega Razzante: “Il non essere riusciti mai a non fare sistema con altri della filiera, dalle rassegne agli edicolanti. Schema autarchico, un’autosufficienza che ha penalizzato lo sviluppo di tutti”.
Quarto punto, conclude: “Il non aver valorizzato il lavoro giornalistico, il non aver creduto sufficientemente nella professionalità dei giornalisti con percorsi formativi che stessi editori avrebbero potuto proporre negli anni”.
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