Spot tv, mercato senza regole Sky e il Tar riaprono i giochi

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Cento milioni: a tanto ammontano i danni chiesti da Sky all’Ag-Com (ma si tratta del mandato precedente, quando l’Autorità per le comunicazioni era guidata da Corrado Calabrò) per aver illegittimamente autorizzato la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, Publitalia, a raccogliere pubblicità anche sui nuovi canali digitali con 18 mesi di anticipo sul previsto. Sembra un puntiglio da ufficio affari legali ma dietro la schermaglia c’è molto di più. La vera posta in gioco è riuscire a riaprire un capitolo che sembrava chiuso della partita regolamentare sulle tv: la decisione da parte della vecchia AgCom di Calabrò che il mercato della pubblicità, ossia il mercato più strategico del settore media, non è un “mercato rilevante” e quindi non può essere sottoposto ad analisi e non può essere regolato. Un “regalo” che la scorsa Ag-Com ha fatto al gruppo Berlusconi nel 2010, al termine di una drammatica votazione che spacco l’Autorità e passò solo grazie al voto di Corrado Calabrò (in caso di parità il voto del presidente vale doppio). Il risultato è che oggi il mercato pubblicitario è fuori dai compiti di regolazione AgCom. Cosa inquietante se si pensa che è un mercato, quello della pubblicità tv, dominato al 60% da Mediaset. E tanto più preoccupante ora che il viceministro alle Comunicazioni Catricalà ha annunciato di lavorare al lancio di sgravi fiscali

sugli investimenti pubblicitari sui media. Queste agevolazioni andrebbero a ridare ossigeno a un mercato squilibrato, visto che in nessun altro paese come in Italia gli investimenti sono sbilanciati sulle tv a scapito degli altri media, e in nessun altro mercato la pubblicità tv è così concentrata in poche mani. La vicenda è complessa. Per punti, può essere ricostruita così. Inverno 2010, i nuovi canali digitali iniziano a togliere share ai vecchi generalisti. Mediaset, che per legge deve raccogliere pubblicità sui nuovi canali con una società diversa da Publitalia, soffre la situazione perché è più difficile fare i pacchetti combinati. Scrive all’AgCom chiedendo di venir liberata da quest’obbligo prima della fine dello switch off, a giugno 2012. L’AgCom dice di sì ma in modo irrituale, tanto che Sky fa ricorso al Tar, che nel febbraio 2011 blocca tutto in via cautelare e nel successivo luglio 2011 conferma la sospensiva in via definitiva. L’AgCom di Calabrò ricorre allora al Consiglio di Stato che si pronuncia lo scorso gennaio, sei mesi fa, e dà torto a Calabrò: la sospensiva era legittima e la decisione pro Publitalia di AgCom nel 2010 sbagliata. Ma il Consiglio di Stato dice di più. Dice che quella delibera AgComa “appare appiattita sulle osservazioni di Mediaset”, e anche che le esigenze che avevano portato all’adozione della misura della doppia concessionaria “permangono in toto”. Un passaggio che lascia indurre l’ipotesi che la doppia concesssionaria non dovesse finire automaticamente con il termine dello switch off. Ma sempre in quel fatidico 2010 l’Ag-Com aveva preso un’altra decisione pesante. La Legge Gasparri, quella che ha inventato il Sic, il Sistema Integrato delle Comunicazioni, così grande e incalcolabile che nessun limite antitrust è applicabile al suo interno, dà mandato ad AgCom di individuare, all’interno del gran calderone, almeno i mercati rilevanti, su cui esercitare vigilanza (anche se al loro interno non sono fissati limiti e al massimo si può determinare una “rilevante posizione di mercato”). L’AgCom con la delibera 555 stabilisce che i mercati sono 5: due per i media cartacei (quotidiani e periodici), la radio, e due per la tv. Ma per quest’ultima non sono i due mercati della pubblicità e della pay-tv, come sarebbe logico attendersi, ma la tv a pagamento e quella in chiaro. Vuol dire che nella prima c’è un operatore di peso rilevante, Sky, che nel 2011 ha avuto ricavi da abbonamenti per 2,4 miliardi, mentre Mediaset ne ha avuti per 516 milioni e il resto del mercato per 104 milioni. Mentre nella tv in chiaro si calcolano non solo i 4,1 miliardi di pubblicità ma anche gli 1,6 miliardi del canone Rai. E poi con questo congegno, se non si conta la pubblicità, la misura del mercato della tv in chiaro è data dal possesso delle frequenze. E qui i limiti sono rispettati perché è stata passata al digitale la stessa ripartizione vigente nell’analogico e dove è rispettata la quota del 20% delle risorse. Quindi l’AgCom non può indagare il mercato della pubblicità. A meno di non tornare sulle definizioni dei “mercati rilevanti”. Oppure che non intervenga l’Antitrust. «Quando degli operatori dominanti vendono la pubblicità con il sistema del traino – spiega l’economista Vincenzo Visco Comandini – i budget marginali non si spostano su altri media». Visco Comandini parla pensando al rapporto squilibrato tra tv e altri media ma si può applicare il concetto anche ai bundle tra i canali ammiragli e i nuovi digitali: se un inserzionista vuole comprare spot su Canale 5 o Italia1, o su Rai1 o Rai2, deve per forza acquistare spazi anche su qualche nuovo canale Mediaset o Rai. E questo sottrae budget potenziali agli editori che invece hanno solo i nuovi canali digitali e tematici che così hanno un peggiore rapporto tra ascolti e investimenti pubblicitari rispetto ai canali degli operatori dominanti. C’è in sostanza una riduzione di risorse contendibili. Ed è ancora questa logica del bundle che in Italia sta rallentando la crescita della stessa pubblicità online. Adesso il rischio è che gli incentivi voluti da Catricalà da una parte vadano ad aiutare il mercato ma dall’altro lo ingessino. A meno che la nuova AgCom di Angelo Cardani non riapra la partita.

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