Simone Di Meo: “Recuperare il rigore professionale per affrontare la criminalità”

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La tentazione sarebbe quella di dire che il periodo non è certo quello migliore per chi sogna di avviare la carriera di giornalista. A maggior ragione in Campania, stretti nella morsa della crisi economica che attanaglia il settore che va a complicare le già difficili condizioni di lavoro che si registrano in determinati territori, dove è forte e virulenta la minaccia della criminalità organizzata.

Ma forse c’è una strada, magari quella più difficile che non ammette deviazioni né scorciatoie. Che si esprime nell’impegno e nel rigore.

Editoria.tv ne ha parlato con Simone Di Meo, giornalista e scrittore napoletano, firma di autorevoli quotidiani locali e nazionali, che al lavoro delicatissimo dell’inchiesta e dell’indagine giornalistica ha dedicato la sua carriera professionale.

 

Quali difficoltà incontra chi vuole raccontare il suo territorio?
La prima difficoltà sta nel rischiare di non trovare chi ti pubblica. La mancanza di un editore – che sia un editore coraggioso – rappresenta un ostacolo abbastanza immediato che si concretizza in una comoda e automatica censura a favore di un sistema di potere che non è soltanto criminale ma anche affaristico e politico. La prima sfida è dunque quella di trovare delle testate che puntino sull’inchiesta di qualità.

Come superarla?
Una possibilità arriva dalla rete, è quella di poter diventare editori di se stessi, superare così la “censura” sostanziale dell’assenza di un editore. E pubblicare, perciò, in piena indipendenza quello che gli altri non ti consentono di pubblicare.
Dall’altro lato, però, bisogna sottolineare che accanto all’opportunità emerge anche la necessità di disciplinare, secondo le più ferree regole deontologiche e mantenendo sempre la bussola della professionalità, quello che esprime la pletora dei siti internet esistenti. Se è facile aprire un giornale o un blog, bypassando anche l’incombenza della registrazione al tribunale, dall’altro lato è necessario che questa libertà non si trasformi in qualcos’altro. La tentazione in cui può incorrere il giornalista è quella, visto che diventa l’editore di se stesso, di sparare a zero e trasformare l’inchiesta in diffamazione seriale. Se sei l’editore di te stesso questo non puoi permettertelo e, anzi, devi essere ancora più rigoroso di quanto lo saresti se pubblicassi per un editore terzo.

Il dibattito è aperto e caldo. Come cambia, se cambia, la strategia per intimidire i giornalisti?
Il campo “giudiziario” è quello meno censurabile. Difficile stabilire se una querela o la richiesta di risarcimento dei danni sia illegale, anche perché toccherà a un giudice stabilirlo. Ma è chiaro che la sola richiesta di risarcimento da milioni di euro, a fronte di giornalisti squattrinati come tutti, può rappresentare un metodo di censura. Non è questo l’unico sistema di intimidazione che stiamo sperimentando a Napoli. Non cessano a danno dei giornalisti le minacce, le aggressioni e le ritorsioni.

Legami tra mondo affaristico e criminalità possono incidere sull’editoria?
Questo dipende dalle dinamiche che sono fluide e liquide in ogni circostanza. Chiaro che la camorra che si sente in pericolo per un articolo di giornale difficilmente scenderà in campo per affrontare il giornalista. Incaricherà sempre qualcun altro di farlo. Chiaro che la trasmissione degli ordini prevede una linea di comando, una gerarchia che dai livelli più alti giunge a quello più basso, della cosiddetta manovalanza.

Quali strategie per uscirne?
La Procura di Napoli ha dimostrato molta sensibilità sul tema, ha raccolto le denunce e sollevato importanti riflessioni e ragionamenti sulla difesa della libera stampa. Io, però, voglio pormi in controtendenza. Ritengo che il miglior modo per difenderci dagli attacchi sia quello di recuperare la serietà e il rigore, l’adamantina correttezza che deve animare il giornalismo d’inchiesta. Riusciremmo a fare di più se recuperassimo il rigore e se evitassimo di raccogliere e pubblicare, magari su qualche blog, voci di strada non verificate e se abbandonassimo l’uso di un linguaggio volgare e allusivo. Ne faccio un esempio: se so che si commette reato in pubblica amministrazione scrivo la notizia, ma non mi metto certo a insultare chi l’ha commesso. Deve essere una missione che coinvolga tutta la categoria, altrimenti finiremmo per parlare sempre del singolo giornalista che è stato minacciato, che è stato apostrofato in strada, magari querelato.

Premio Atreju, le ragioni di un riconoscimento.
Sono stati davvero molto gentili e cortesi a sollevare una volta di più il tema del riconoscimento del tema dell’attività intellettuale da parte di giornalisti che si sono sentiti depredati dal frutto delle loro fatiche e che si sono ritrovati loro malgrado in un best seller internazionale senza essere citati. Un grosso senso di gratitudine nei confronti di chi mi ha voluto omaggiare di questo premio con grande coraggio e onestà intellettuale.

(giovanni vasso)

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