Il sequestro giudiziario delle quote di un giornale o di una televisione non è cosa nuova; è già successo, accadde a Nicola Grauso, editore allora di Videolina, per la presunta estorsione nei confronti di Tito Melis; successe con le Gazzette di Edoardo Longarini, poi destinate al fallimento. In quei casi furono poi, dopo decenni, tutti assolti, rimasero dei lucchetti fuori alle redazioni dei giornali o dei cambi di proprietà. L’accusa a Mario Ciancio, potente editore e ex presidente della Fieg, a sua volta potentissima associazione di editori, è più grave: associazione esterna mafiosa. L’accusa è tutta da provare, ed anche il reato, sempre più strumento di azioni cautelari da parte della magistratura, trova forte criticità in sede di Corte europea di giustizia. Ma il fatto nuovo è l’accusa, generalizzata, da parte del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, all’intero sistema dell’informazione italiana. Nel corso di un’intervista al Sole 24 ore Cafiero de Raho pone il problema dei silenzi dei giornalisti e la necessità di interrogarsi sulle ragioni. E’ una questione giusta e corretta, ma nella narrazione degli stessi giornali diventa un attacco generico alla stampa, lasciando intravvedere scenari inquietanti. Se esistono perplessità nei rapporti tra giornali e mafie non possono essere generiche: è dovere di tutti, e in particolare di chi sa, di fare nomi e cognomi. Il rischio è che la cultura dei professionisti dell’antimafia basata su illazioni e congiunture si trasformi nel grimaldello per sostenere chi ritiene che l’unico giornale buono è il giornale morto. E, al contempo, sarebbe interessante sapere quali sono gli strumenti che lo Stato può attivare da subito per garantire ai giornalisti de La Sicilia di continuare a fare il loro mestiere e ai siciliani di leggere il loro giornale.
Enzo Ghionni