Ordinanza
La Corte,
ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in
cancelleria la seguente relazione:
Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo,
letti gli atti depositati
Osserva:
La CTC sezione regionale di Napoli ha accolto il ricorso dell`Agenzia -ricorso proposto contro la sentenza n. 142/04/1991 della CT di secondo grado di Avellino che aveva accolto il ricorso della “T.S. spa” (in liquidazione)- ed ha così confermato l’avviso di liquidazione per IVA relativa ad annualità che non è possibile desumere dagli atti di causa, Iva che si assumeva dovuta in ragione della contestata “annotazione di fatture per operazioni inesistenti”, per effetto delle quali si riteneva da parte dell’Ufficio che non fosse efficace la definizione automatica richiesta dal contribuente in applicazione dell’art. 26 della legge n. 516/1982.
La predetta CTR ha motivato la decisione ritenendo che il condono -pur ammissibile per le pendenze in materia di IVA, anche in ipotesi di contestata fatturazione di operazioni inesistenti- “non è consentito quando si configuri un credito del contribuente, giacchè il condono presuppone pur sempre un debito di imposta del contribuente, con conseguente obbligo di versamento a carico di quest’ultimo”. Nella specie di causa si era trattato di fatture passive inerenti ad operazioni inesistenti che comportano un maggior credito richiesto a rimborso, sicchè non poteva considerarsi applicabile la definizione agevolata.
La società contribuente ha interposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
L’Agenzia intimata non si è costituita.
Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis cpc assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 cpc- può essere definito ai sensi dell’art.375 cpc.
Infatti, con il secondo motivo di impugnazione (incentrato sulla violazione dell’art. 28 del D.L. n. 429/11982) la ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello abbia ritenuto che il condono sia idoneo a spiegare i suoi effetti nell’ipotesi di fatturazioni inesistenti e ciò sulla premessa che in ogni caso la detrazione dei costi derivanti da dette operazioni implichi un “credito chiesto a rimborso” e senza considerare che invece la sussistenza di una simile condizione “va veriñcata in relazione alla dichiarazione integrativa che all’uopo esso è tenuto a presentare, non già con riferimento alle operazioni per le quali il condono è richiesto” (ed infatti nella specie di causa, nonostante la contestazione dei costi indetraibili per operazioni inesistenti, l’accertamento comportava un recupero di maggiore IVA pari a £ 22.424.465).
L’assunto che innerva il motivo è, per la fattispecie che viene in rilievo, fondato in punto di diritto, in quanto collima con l’orientamento ormai consolidato di questa Corte in ordine alle condizioni di efficacia della dichiarazione integrativa ex artt. 26 e 28 del richiamato D.L., e alle consequenziali condizioni di ammissibilità del condono fiscale laddove alla presentazione della dichiarazione detta faccia comunque seguito (come è qui pacifico che sia avvenuto) un pagamento d’imposta.
In termini, di recente Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7675 del 16/05/2012: “in tema di condono fiscale, la definizione agevolata delle pendenze in materia di Iva prevista dal D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 28, conv. in L. 7 agosto 1982, n. 516, è ammissibile, in mancanza di limitazioni, anche in caso di fatturazione di operazioni inesistenti, non risultando dalla legge limitazioni al riguardo, ed essendo stata tale fattispecie compresa tra i reati di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 50, (abrogato dalla L. n. 516 cit., art. 13, con decorrenza dal 1 gennaio 1983), la cui inclusione nell’amnistia di cui al D.P.R. 9 agosto 1982, n. 525, era subordinata alla condizione che il contribuente avesse fatto ricorso al condono fiscale”.
La definizione agevolata, cioè, non resta esclusa nel caso in cui le predette operazioni abbiano condotto all’esposizione di un minor debito d’imposta; mentre non è consentita quando si configuri un credito in favore del contribuente, in quanto, come si evince dal D.L. n. 429 del 1982 cit., art. 26 e 28, il condono presuppone pur sempre un debito d’imposta e un conseguente obbligo di versamento (v. da ultimo Cass. n. 18801/2006; nonché conf. Cass. n. 14053/2006; n. 11560/1997).
La pronuncia di cui è dianzi menzionato il principio di diritto ha anche argutamente evidenziato che “la conclusione assunta dall’orientamento evocato trova
convincente spiegazione in ciò: che il condono previsto, con riguardo all’Iva, dal citato D.L. n. 429 del 1982, è stato considerato alla stregua di condizione per fruire dell’amnistia di cui al D.P.R. 9 agosto 1982, n. 525; e a sua volta l’amnistia era stata concessa, appunto a condizione che si fosse fatto ricorso al condono fiscale, anche a coloro che avessero commesso il reato di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti (punito, all’epoca, dal D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, art. 50). Nell’anzidetto perimetro normativo, è quindi logico affermare che l’applicabilità del condono resta esclusa solo quando, dal1’insieme delle suddette operazioni, deriva un credito del contribuente azionabile in pregiudizio dell’amministrazione, dovendo comunque il condono comportare un versamento da parte di quest’ultimo, il quale è tenuto, ai sensi del D.L. n. 429 del 1982, art. 26, a sborsare in ogni caso una parte della maggiore imposta accertata”.
Ed infatti, ai fini di ciò che qui rileva occorre tenere conto del complesso meccanismo dell’Iva, che impone che ogni valutazione vada fatta, non per singole operazioni, ma in relazione al complesso delle stesse in un determinato periodo. Dacché il corollario che l’applicabilità (o meno) del condono resta condizionata all’esito contabile dell’insieme delle operazioni dette; e dunque al fatto che alla fine del periodo emerga,
o meno, un debito del contribuente, dovendo comunque il condono comportare un versamento da parte di quest’ultimo.
Non resta che concludere che il contrario avviso del giudice di merito costituisce vizio di falsa applicazione della richiamata disciplina, e con la ulteriore conseguenza che la controversia può anche essere decisa nel merito, non risultando ulteriori accertamenti da effettuare, con l’accoglimento della impugnazione proposta dal contribuente contro il provvedimento impositivo.
Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza.
Roma, 30 gennaio 2013.
che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;
che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie;
che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto;
che le spese di lite possono essere regolate secondo il criterio della soccombenza, limitatamente a questo grado, con compensazione di quelle di merito, alla luce della non agevole soluzione dei problemi di applicazione implicati dalla disciplina qui considerata.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa Ia sentenza impugnata e, decidendo nel merito, annulla il provvedimento impositivo qui oggetto di impugnazione. Condanna l’Agenzia a rifondere le spese di lite di questo grado, liquidate in € 3.000,00 oltre €
100,00 per esborsi e compensa tra le parti le spese dei gradi di merito.
Così deciso in Roma il 26 settembre 2013.
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