ROTTAMARE LA SIAE. TUTELARE LE IDEE

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Tirate una linea. Da una parte creatività e idee, che in Italia, per legge, non esistono. Dall’altra, la Siae. Un carrozzone dalle ruote sgonfie, che ha contratto debiti per 1 miliardo di euro e che tutela storicamente solo una minoranza corporativa. Se foste “creativi” – quindi ai margini del sistema lavoro – che fareste? Sì. Lo farei anch’io.

Soprattutto da quando, spulciando i giornali, ho scoperto che la Siae si è beccata una nota di biasimo della Commissione Europea per essere, da toppo tempo “…una delle più inefficienti società di gestione dei diritti d’autore”. Un simulacro imbiancato che vede Il 42 percento dei propri dipendenti collegati tra loro da rapporti di parentela o amicizia. Con stipendi elevati, un capitale immobiliare gigantesco che non rende praticamente nulla e privilegi anacronistici, come la mitica ‘indennità di penna’: sino a 159 euro mese a tutto il personale per il traumatizzante passaggio dalla “penna” al computer.

Un club monopolista al servizio di pochi eletti, che mentre apriva 700 sedi in Italia a bassa redditività, non si è mai sforzata di capire che nel frattempo il mondo era cambiato, digitalizzato, internazionalizzato, contaminato. Comprendere che sarebbero dovuti essere proprio loro a dover andare a cercare il lavoro intellettuale, a tutelare professioni e aree espressive del tutto ignorate. A difendere le idee, ovunque si trovassero.

Avete mai sentito di un loro intervento pubblico per aiutare gli under 30? Di una pressione nei confronti del governo e dei media per ampliare l’orizzonte del Diritto d’Autore? Per dare riconoscimento e dignità a quelle professioni che un secolo fa non esistevano proprio?

Io penso da anni (anticipando quella che è divenuta la moda del momento) che bisognerebbe rottamare la Siae e ripensare totalmente il Diritto d’Autore, oggi plasmato sulla una lobby di 100 anni fa.
Perché se oggi hai un’idea, che non sia inserita in quelle quattro caselle proposte in Italia, non sai come registrarla o proteggerla. La devi nascondere dentro la parola “Format”, anche se è un progetto imprenditoriale, il layout di un nuovo shop, un contenitore digitale, un claim, l’idea di un programma televisivo o il meccanismo di un game, confidando su una cosa che si chiama “data certa”. E che non servirà a molto, quando dopo anni, mentre sarai già morto di fame, verrai ricevuto da un giudice.

Così, se avessi avuto l’idea di Facebook (…senti, perché non diamo vita a una struttura social, sul web, nella quale ci si iscrive gratuitamente per condividere, foto, testi e immagini?) non avrei potuto farlo. Così, se oggi scrivi il jingle per un prodotto sarai pagato sino a 70 anni dopo la tua morte. Mentre se scrivi il claim di quel prodotto, o magari ne progetti il logo, o ne sviluppi il concept guida, che rende quel brand diverso da qualsiasi altro, nulla ti sarà dovuto, se non l’obolo iniziale: ‘pochi, maledetti e subito’.

Questo perché ogni agenzia di pubblicità, comunicazione, eventi, web, progettazione, spesso anche design, cede automaticamente i propri i diritti d’autore. E i creativi li cedono a loro volta all’agenzia, senza che questo comporti alcun diritto sulle proprie opere di ingegno. Un tema che sollevo sotto il profilo morale ed etico. Ma che ha anche ricadute pratiche sui “lavoratori della creatività commerciale”, che rinunciano alla proprietà intellettuale, senza però ricevere le agevolazioni fiscali (ritenuta d’acconto del 20 percento sul 75% del compenso) delle quali avrebbero sacrosanto diritto.

L’idea non ha valore giuridico. I brevetti astratti o le idee software non esistono. Non c’è giurisprudenza. Cioè “sentenze” che permettano ad altri giudici di indirizzare la propria valutazione. Cosa, per esempio che avviene negli Stati Uniti, dove, come dimostra il contenzioso facebook (tema, come noterete, che ritorna), che vedeva opposto Mark Zuckerberg per furto di proprietà intellettuale contro i gemelli Tyler Winklevoss. E che vide il primo pagare 65 milioni di dollari, per paura di una sentenza sfavorevole.

Da noi, una barzelletta. Anche se un cliente fa realizzare a un’altra entità il progetto che tu hai presentato in gara, e tu lo chiami in causa, vince a mani basse in primo grado (vi risparmio i riferimenti), visto che questo è il tenore delle sentenze italiane: “Poiché esiste il principio secondo cui il diritto d’autore non protegge le singole idee, esso non protegge appunto le idee pubblicitarie, le idee di operazioni promozionali, gli schemi ideativi di giochi, eccetera” (Trib. Milano)

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