Succede che per denunciare le falle della rete, ci si finisca direttamente dentro.
E’ capitato ad Aaron Swartz, il giovane hacker informatico che, dopo essersi visto accusare di aver manomesso i dati del sito del Mit (Massachusetts Institute of Technology), ha deciso di farla finita togliendosi la vita.
Tutto ha avuto inizio quando Swartz, nel luglio 2011, è riuscito a introdursi all’interno del Journal Storage, il servizio a pagamento per la consultazione di riviste e articoli scientifici, scaricando 4,8 milioni di documenti da diffondere, poi, in rete, in nome della libera circolazione del sapere.
Di fronte le accuse derivanti dall’aver violato proprio quel sito, il giovane si è dichiarato innocente e ha restituito tutti i documenti di cui era entrato, precedentemente, in possesso (illecitamente).
I Vertici del Journal Store, a questo punto, hanno deciso di soprassedere e non hanno quindi mosso alcuna ulteriore accusa nei confronti di Swartz.
Non così, però salvo il procuratore Carmen Ortiz che ha deciso, invece, di tornare sulla gravità del furto informatico, tirando dentro il giovane hacker fino a fargli cadere addosso un pesante capo d’imputazione.
Per Swartz il processo avrebbe dovuto avere inizio a febbraio: contro di lui ben 13 capi di imputazione tra cui quello di frode informatica.
In caso di colpevolezza il condannato avrebbe dovuto scontare 30 anni di prigione con il pagamento di una multa di un milione di dollari.
Una condanna che il giovane americano non ha retto.
Da qui il folle quanto disperato gesto.
Ora gli internauti piangono la sua scomparsa ed il cordone di solidarietà che si è stretto attorno al giovane prematuramente scomparso, vede anche centinaia di professori che hanno messo online (gratis) i pdf dei loro saggi come omaggio all’hacker che defunto.
Intanto al dolore della famiglia Swartz si aggiunge la rabbia per quello che è stato definito il “prodotto di un sistema di giustizia penale caratterizzato dall’intimidazione e dallo strapotere dei procuratori”.
Il caso “Swartz” apre, tuttavia, una serie di interrogativi sul labile confine tra difesa della privacy del materiale in rete e diritto alla libera circolazione di quest’ultimo.
Di conseguenza sotto quale luce interpretare il lavoro degli hacker? Sono novelli Robin-Hood che rubano ai ricchi per dare ai poveri o pirati informatici che scoprono tesori per il solo tornaconto personale?
Difficile a dirsi soprattutto quando le azioni di “hackeraggio” sono in qualche modo giustificate da fini che possono apparire legittimi.
E’ il caso di Glenn Mangham uno studente inglese di 26 anni appassionato di informatica.
Con certosina scrupolosità, il giovane internauta mira a scovare le falle di sicurezza dei sistemi informatici.
E lo fa con un certo successo, tanto da ricevere persino un riconoscimento da Yahoo, dopo averne scovata una nel sistema di sicurezza del portale.
Il ragazzo si fa quindi strada nel mondo del web, fino ad arrivare nel febbraio 2012 alla fortezza dei social media: Facebook.
E lì iniziano i guai.
Glenn, infatti, si introduce nel sito attraverso un server riservato ai potenziali impiegati di Fb.
Per accedervi, viola un account, entra nel server che gestisce le liste e-mail interne ed esterne del social network e a quello dedicato agli sviluppatori, ed entra così in possesso di una grande quantità di dati.
Lo scopo? riportare a Facebook un dossier che dimostri i difetti del loro sistema di sicurezza.
Un’azione buona, almeno nelle intenzioni del giovane, che voleva solo mandare un gentile avvertimento a Mr. Zuckerberg e compagni.
Ma non l’ha pensata così il giudice inglese che ha condannato Mangham a 8 mesi di carcere.
La condanna è derivata dalla gravità del fatto e dal costo in termini economici che il “giochino” del giovane hacker ha fruttato ai vertici di Facebook e alle forze dell’ordine.
Ora seguendo questo principio per cui chi sbaglia paga, come nei casi Mangham e Swartz , non è chiaro cosa ci sia di diverso nel caso di George Hotz.
Dopo avere “hackerato” il jailbreak (la procedura che svincola il dispositivo dalle norme imposte da Cupertino) dell’iPhone, Hotz non solo non viene punito ma addirittura viene assunto da Zuckerberg in persona che lo accoglie nel suo staff.
E’ chiaro quindi che un principio regolatore per i “crimini informatici” ancora non esiste, e per quanto sia controverso stabilirlo, la sua emanazione si fa sempre più impellente.
Soprattutto quando ci scappa il morto.