Ha le idee chiare Umberto Frugiuele, presidente di Assorassegne, l’associazione nazionale che tutela gli interessi e dà voce alle aziende di un settore che complessivamente occupa circa 600 dipendenti in tutta Italia per un giro totale di affari pari a quasi 40 milioni di euro.
“Facciamo questo mestiere da una vita” spiega Frugiuele. “Nel 1901 – prosegue – il mercato delle rassegne stampa avveniva in forma diciamo così classico: su materiale cartaceo. Poi dal 1970, sono arrivate le macchine fotocopiatrici. E infine, dal 1993, grazie alla diffusione del computer, ci siamo aperti al formato elettronico. Stiamo parlando di oltre un secolo di attività. Cento anni e passa in cui tutto è andato avanti in maniera regolare e senza particolari intoppi. Fino a quando una parte del mondo editoriale non si è messa in testa di voler contestare la nostra presenza sul mercato del lavoro”.
Cosa c’è che non va, presidente?
“Procediamo per gradi. Dal 1998 al 2007 ci sono state tre proposte di legge di iniziativa governativa, ed altre di stampo parlamentare. Tutte volte a gettare le basi per il varo di una regolamentazione di legge destinata al settore delle rassegne stampa. Nell’ambito di questa stessa ‘regolamentazione’ si dava mandato alla Siae di decidere cosa e se, eventualmente, far pagare alle nostre aziende. Ebbene tutte queste proposte avevano la stessa comune caratteristica di voler proporre un garante pubblico che il Governo individuò, allora, nella stessa Siae”.
Com’è andata a finire?
“Che i governi sono caduti. Prima D’Alema, poi Prodi. E sulla vicenda, dopo l’ultima proposta di legge del sottosegretario Levi, è calato il sipario. Dal 2007 a oggi semplicemente si è smesso di parlarne. Fino a quando, nel 2010 la Fieg non ha scritto una bella lettera e ci ha detto, chiaro e tondo, che non potevamo fare più attività di rassegna stampa”.
Qual è stata la vostra risposta?
“Ovviamente non ci siamo fermati! I nostri avvocati hanno ricordato ai rappresentanti della Fieg che non si poteva bloccare un comparto attivo e presente sul mercato dagli inizi del Novecento! Ma anche che eravamo pronti dialogare con loro. La questione, d’altronde, è semplice. Dobbiamo pagare per la nostra attività? Dobbiamo versare qualcosa agli editori per il lavoro che svolgiamo? Ok, siamo pronti a farlo. No problem. Sediamoci tutti quanti attorno a un tavolo e discutiamone. Serenamente. Ma prima di farlo troviamo un garante che ci tuteli. Tutti quanti, ripeto. Nessuno escluso. Perché in Italia non c’è solo la Fieg a rappresentare gli editori. Altrimenti basterebbe il solo lavoro di selezione di Google e il nostro stesso mestiere non avrebbe motivo di esistere”.
La replica della Fieg?
“Silenzio. Come nel 2007. Questa volta è durata fino al mese di ottobre del 2011 quando siamo stati convocati agli stati generali dell’editoria. Anche in quella sede abbiamo ribadito che siamo disposti a pagare, ma che ci vuole un tavolo di confronto. Il Dipartimento dell’Editoria ha accolto la nostra proposta. Lo ha convocato e ci ha dato il via libera. L’antifona è apparsa chiara fin dal primo momento: ‘siete disposti a pagare? Bene. Allora incontratevi con gli editori e accordatevi’. Più semplice di così”.
Intanto cade nuovamente il governo…
“Un’altra volta, sì. Cade il governo Berlusconi e arriva Monti che dell’argomento non si occupa minimamente”.
E la Fieg?
“La Federazione degli editori di giornale torna al contrattacco con una serie di richieste per noi semplicemente irricevibili per non dire assurde”.
Della serie?
“Vuole un esempio? La Fieg ci diceva che non avremmo potuto più fare il nostro lavoro oppure avremmo potuto farlo, sì, ma solo su licenza dei giornali. Pazzesco. E se un giornale non ci dava la licenza, cosa facevamo? Ce ne andavamo tutti quanti a casa?”.
Ecco perché ci tiene a sottolineare l’esigenza di una legge…
“Vede, noi non siamo innamorati della Siae, ma ne parlavano le proposte del 2007. Occorre individuare, a nostro giudizio, un garante e se quel garante deve essere la Società degli editori, allora ben venga la Siae. Lo abbiamo detto e ripetuto in tutte le lingue del mondo: siamo disposti a pagare, ma per farlo occorrono regole chiare”.
Cosa chiedete alla Fieg?
“Un accordo veloce. Non importa quanto dobbiamo pagare. Il 4 per cento? L’8 per cento? Fatecelo mettere in fattura, in modo da consentirci di poter stilare un report preciso sull’operazione. In tal modo il cliente vedrà cosa è stato inserito in fattura e tutti quanti potranno pagare senza fare i furbetti”.
E le regole?
“Nominiamo un comitato paritetico per stabilirle. Facciamolo convocare da chi fa questo di mestiere. Un tavolo, insomma. Ma con una maggioranza veramente qualificata. Noi, lo ribadisco ancora, non abbiamo problemi: basta, però, che ci sia un garante pubblico. E se il garante dirà che non dobbiamo più fare rassegne stampa allora ci adegueremo e cambieremo mestiere. Ma è assurdo che sia la Fieg a volercelo imporre”.
Qualcuno obietta che uno dei motivi della crisi legata al calo di vendite dei giornali sia addebitabile alla pubblicazione delle rassegne stampa sulla rete.
“Stiamo scherzando? Facciamo questo mestiere da oltre un secolo, non certo da ieri! Che c’entriamo noi con la crisi? E la stampa on-line allora? E i giornali free pubblicati sul web? E poi: mica siamo stati noi a pubblicare le rassegne stampa su internet? Sono state le istituzioni. Doveva essere la Fieg, semmai, a vigilare, a impedire che fossero pubblicate! Perché non lo ha fatto? Noi più che farci firmare una liberatoria dal cliente, cos’altro possiamo fare?”.
Insomma: o si fa una legge…
“…o si trova un accordo. Senza che però la Fieg ci detti, unilateralmente, le sue condizioni. Noi siamo pronti e disponibili al confronto. Facciamole queste benedette regole, tutti quanti assieme. Ma alla presenza di un garante pubblico. Altrimenti diventerà un’anarchia! Parliamoci chiaro: senza regole non si va da nessuna parte. E le regole o si fanno per legge o si fanno con un accordo. Ma chiudere un accordo non significa accettare per forza le regole che ci vuole imporre la controparte”.
Altre soluzioni?
“Non esistono. La Fieg vuole farci causa? Faccia pure. Ci sarà anche per noi un giudice a Berlino! E poi: nel nostro Paese contiamo 2.600 aziende editoriali. Quando il governo convoca i rappresentanti dell’editoria ai tavoli invita, con la Fieg, anche Anes, File, Fisc, Mediacoop e Uspi. Oppure la Fieg si illude di rappresentare, da sola, l’intero comparto editoriale del Belpaese? Come può, la Federazione, pretendere di dettare le regole da sola?”.
E’ vero. Su 2.600 editori la Fieg ne rappresenta 118, ma tra questi ci sono i cosiddetti big dell’editoria tricolore…
“E allora? Noi parliamo, sui nostri documenti pubblicitari, sempre di tutte e sei le associazioni di categoria. Le stesse che il presidente del Consiglio convoca, normalmente, ai tavoli. Tutte assieme rappresentano 2.600 editori. Di questi solo 118 sono rappresentanti da Fieg. E tra questi in 44 hanno deciso di aderire al Repertorio Promopress (lo speciale organismo – che fa capo alla Federazione italiana degli editori di giornali – costituito appositamente per raccogliere il compenso per i diritti di riproduzione e utilizzo degli articoli sulle rassegne stampa, nda). Sono i principali? Va bene. Chi lo nega. Ma gli altri sono 2.500! Se si contasse solo la diffusione allora tanto varrebbe far votare i cittadini per… censo o per cultura! Siamo in regime democratico, non dimentichiamolo mai. Mica le abbiamo convocate noi le altre associazioni ai tavoli? Se la presidenza del Consiglio chiama Anes, File, Fisc, Mediacoop e Uspi insieme alla Fieg alle trattative significa che ritiene queste associazioni parimenti rappresentative. O sbaglio? Noi vogliamo fare un accordo. Noi chiediamo che si faccia un accordo. Ma vogliamo poterlo fare con tutti. Non con chi vuole imporci, a forza, le proprie regole. Per fare questo, però, serve un garante, altrimenti rischiamo solo di andare allo scontro”.
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