Quando abbiamo iniziato a odiare i giornali: il caso Guareschi

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L’aggressione dei Cinque Stelle alla libertà d’informazione è inusuale; per i modi, per le forme, per la sostanza. Mai nessuno prima di loro si è augurato la chiusura dei giornali; avversari a prescindere, nemici da abbattere, senza fare prigionieri, gli odiati giornalisti. Eppure da anni, da più parti, si chiedeva di rivedere le regole, di comprendere quali fossero le ragioni per cui un contro potere, come dovrebbe essere l’informazione ha perso autorevolezza, credibilità, al punto da essere vista come una semplice e scodinzolante appendice della politica e della grande industria.

La stampa veramente libera in Italia non lo è stata mai; per le regole giudiziarie e per le dinamiche economiche che, negli anni, hanno portato alla scomparsa degli editori puri all’affermazione dei grandi gruppi editoriali con a capo operatori economici con grandi interessi nei settori strategici del Paese. Se la storia ha un senso, allora proviamo a rileggere alcuni episodi, spesso datati nel tempo; è un modo per comprendere come dei fenomeni che sembrano eversivi, l’attacco da parte di una maggioranza, relativa, a tutte le minoranze, trovano le radici ben piantate nel tempo.
Piccole storie che da oggi raccontiamo come piccole pillole.

E partiamo da Giovannino Guareschi, l’autore delle storie di Don Camillo e Don Peppone, un borghese che coltivava la tradizione come valore, assolutamente non disposto a  tollerare gli ismi, qualunque fosse la preposizione. Giovannino Guareschi era un valente giornalista, libero come pochi, leggete i due bellissimi volumi “la famiglia Guareschi”, editi da Rizzoli, per comprendere il valore dell’uomo. Ebbene Guareschi fu condannato due volte per diffamazione La seconda volta per essersi rifiutato di far disporre una perizia calligrafica su un documento, in suo possesso, attribuito ad Alcide De Gasperi. Don Giovanni era uomo tutto di un pezzo e rifiutò di proporre appello, per palese ingiustizia, a suo dire; e coerentemente andò in carcere dove fu recluso per 410 giorni. Pagò per le sue opinioni, per la sua libertà di pensiero. Avendo posizioni conservatrici in un’Italia in preda al conflitto tra il partito comunista e la democrazia cristiana fu lasciato solo; dai suoi colleghi giornalisti, dagli editori, da gran parte degli esponenti della cultura dell’epoca. Piccoli germi che hanno iniziato ad erodere il principio della libertà d’espressione.

Enzo Ghionni

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