Basta censure dei siti web, provider ed esperti di diritti digitali ora passano alla rivolta, da oggi: l’occasione è l’oscuramento delle sezioni Piemonte e Toscana di Indymedia, con l’accusa di diffamazione ai danni della multinazionale Coe Clerici. Ma l’obiettivo dei
“rivoltosi” è ora ottenere una vittoria legale che ponga un freno definivo a queste pratiche. È stato il Giudice delle indagini preliminare di Milano a chiedere ai provider, il 13 giugno, di oscurare quelle sezioni di Indymedia. Significa che i provider devono impedire ai propri utenti di accedere a quelle pagine. Il motivo sono quattro articoli di stampa ritenuti diffamatori da Coe Clerici: è una vecchia storia, di 14 anni fa.
Un articolista anonimo di Indymedia (com’è prassi di questo noto network internazionale) aveva riportato, “abilmente decontestualizzandolo” afferma il Gip, “un passaggio di una riservata relazione di un manager della XXXXXX addetto al mercato ucraino – si afferma, in buona sostanza, che la medesima XXXXXXX non avrebbe alcuna remora a fare affari con soggetti di diretta o indiretta caratura mafiosa, tant’è che il relativo titolo è Mafioso è bello”. “La querelante viene descritta, in estrema sintesi, come una società la cui politica aziendale è stabilmente caratterizzata dall’abituale ricorso a scorrette pratiche commerciali, spesso sconfinanti nei reati di corruzione, turbativa d’asta e illegale intercettazione di comunicazioni e conversazioni”.
L’articolo di Indymedia era stato ripreso poi da Milano Finanza e di qui l’ira di Coe Clerici. A cui ora rispondono i provider. In particolare, sono l’associazione Assoprovider e il provider Cwnet a deporre oggi ricorso, contro l’ordine del giudice, presso il tribunale delle libertà di Milano. “Se il tribunale ci darà ragione, andremo alla Corte di Giustizia UE, insieme con Aiip, l’altra associazione provider, e Alcei, la storica associazione per le libertà digitale”, spiega Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritti su internet e avvocato di Assoprovider per questa vicenda.
È sarà nel caso la Corte di Giustizia UE a fare la differenza. È la seconda volta in Italia che viene oscurato un sito per diffamazione. Ma è la prima volta che i provider mirano alla Corte di Giustizia UE per affermare il principio secondo cui gli oscuramenti violano i diritti costituzionali del cittadino. Perlomeno quelli motivati dall’accusa di diffamazione. Per vari motivi. “È una minaccia alla libertà d’espressione – tra l’altro Indymedia aveva concesso a Coe Clerici il diritto di replica”, spiega Sarzana. E, per come funziona internet, i provider non possono comunque oscurare i singoli articoli ma devono agire sull’intero sito o dominio (ecco perché sono andate di mezzo due intere sezioni del network”. Secondo, “i provider, per oscurare un sito, devono trasformarsi in poliziotti della rete, sorvegliando il traffico dei loro utenti. Solo così possono bloccare le “strade” informatiche che vanno dagli utenti fino al sito”.
“Se la Corte di Giustizia UE ci darà ragione, questi oscuramenti diventeranno impossibili”, dice Sarzana. Si cercherà di fare leva anche su una recente sentenza della Corte a favore dei provider. “Questo episodio è l’ennesima dimostrazione che quando c’è di mezzo Internet, leggi, regolamenti e provvedimenti giudiziari in Italia sono presi a prescindere da una effettiva conoscenza delle tecnologie”, aggiunge Paolo Nuti, presidente di Aiip (Associazione Italiana Internet Provider).
“I problemi di ordine pubblico in rete, si possono risolvere esclusivamente alla fonte, anche quando il sito è all’estero e non attraverso il cosiddetto “oscuramento”, vera e propria una benda sugli occhi del cittadino che va ben oltre la censura”. “Insistere nell’errore, procura, come in questo caso, danni a terzi non coinvolti e ritarda sine die la soluzione del problema attraverso i necessari accordi di rogatoria internazionale on line”, aggiunge. Fare una rogatoria per togliere i contenuti illegali dal server estero, invece che oscurare il sito, è insomma la proposta dei provider. Ma la giustizia italiana preferisce ora la via più corta così si spiega il boom di oscuramenti. “Siamo diventati il laboratorio europeo per il blocco dei siti, per quanti ne facciamo”, dice Sarzana.
“A partire dal caso di The Pirate Bay si sono succeduti a raffica gli oscuramenti mascherati da “sequestri preventivi” di risorse di rete localizzate al di fuori dell’Italia”, aggiunge Andrea Monti, avvocato esperto di diritti digitali e presidente di Alcei. “Si tratta di provvedimenti illegittimi e contrari alla convenzione europea sul cybercrime, ratificata nel 2008 anche dall’Italia. Oscurare un sito impedendo agli utenti di raggiungerlo non è un sequestro ma una forma di “intercettazione” che nelle sue versioni più estreme può giungere addirittura al filtraggio del traffico”, aggiunge. “Il vero sequestro si può fare in un solo modo: intervenendo sul contenuto incriminato, ovunque esso si trovi e non impedendo a terzi di raggiungerlo”.
“E’ impensabile che l’esecuzione di un provvedimento di “sequestro” sia demandata in tutto e per tutto agli operatori di accesso che, ancora una volta, vengono loro malgrado trasformati in “sceriffi della rete”. Gli strumenti giuridici per oscurare risorse estere ci sono: si chiamano trattati e accordi di cooperazione internazionale. E non si capisce il perché la magistratura preferisca perseverare nell’interpretazione sbagliata di una norma, invece di utilizzare gli strumenti che già a disposizione e che non creerebbero alcun problema operativo”, conclude Monti.
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