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Quel privato condiviso, anche via web

C’erano una volta le foto ricordo, le immagini ingiallite, per fermare un momento di felicità, un pezzo di vita. Oppure i filmini. O, ancora, le lettere, cui consegnare confidenze e caso mai rivelare segreti. Poi internet, le mail, buste aperte che non il solo il destinatario può leggere

Sebastiano Maffettone

Quindi il tuffo nella rete, un mare aperto al quale l’io si affida, si consegna, una sorta di bagno dove navighi tra cento, mille compagni di ventura. E con te nuotano emozioni, sensazioni, gioie, ma anche sofferenze, dolore. Di queste nuove dimensioni, dei nuovi spazi di comunicazioni aperti dal web, parliamo con Sebastiano Maffettone, docente di filosofia teoretica e morale alla Luiss di Roma, dove dirige anche, da meno di un anno, il corso di Giornalismo.

In recente saggio, il filosofo sud coreano Byung-Chul Han sostiene che il web sta uccidendo ogni dimensione privata. Parla addirittura di pornografia del web, nel senso che l’io si consegna senza condizioni, “nudo e senza pudore”. Cosa ne pensa?
Non ragiono in questi termini. A mio parere la dimensione del dolore, della sofferenza ha una profonda valenza pubblica. Nel senso che l’io cerca una condivisione, una partecipazione, proprio come un modo per sentire meno pesante quel dolore, per renderne altri partecipi, forse per esorcizzarlo.

Come è raccontato da tante tradizioni, tanti riti anche risalenti nel tempo…
In quelle forme, in quei rituali, ad esempio dopo la morte di una persona cara, c’era la volontà di ricordarla, di celebrarla davanti a tutti nel villaggio, con canti, balli. Quella persona in qualche modo continuava a vivere dentro i partecipanti, era fondamentale essere tutti insieme per fermare nell’anima quella presenza. Del resto, tutte le forme di culto, come il battesimo, la messa, non sono solo manifestazioni che esprimono la religiosità, ma soprattutto un momento di condivisione.

Poi si è passati ad altro, ad altre forme di partecipazione….
Che hanno sempre al centro il desiderio di non rimanere soli, di comunicare agli altri. Come quando andavi al bar per cercare le parole degli amici, un dialogo, una porta aperta. Ora con la rete. E’ un mezzo, per chi ci crede, uno strumento nuovo, un di più. Certo, io preferisco sentire gli odori, guardare gli occhi di una persona, capire quel che riesco effettivamente a comunicare con le mie parole. Ma se oggi esiste anche un’altra modalità, non è assolutamente da mettere al bando.

Secondo alcuni siamo in un “villaggio globale”, dove “tutti sanno tutto di tutti”, perdendo, così, ogni privacy…
Ripeto un mio punto di vista. A mio parere la condivisione resta un tassello base, anche per alleviare una situazione di forte disagio o di sofferenza. Oppure il male di esistere. Quindi, c’è un significato in qualche modo “collettivo” in tutto ciò.

E forse la rete può aiutare in una situazione del genere…
Prendiamo tanti ragazzi di oggi, costretti a vivere in megalopoli senza anima e senza senso. Non vedi un futuro, dove vai, al bar o in piazza? Ti chiudi, non trovi spazi, a quel punto la rete, il web può rappresentare un salvagente. Meglio del nulla più totale.

Ma non è la soluzione.
Certo. Perchè l’unica via d’uscita, a mio parere, è un nuovo umanesimo, la riscoperta dei rapporti umani. Secondo me, una dimensione moderna, nuova, dove c’è la rete come strumento di interconnessione, non può prescindere dal tentativo di ricostruire quel tessuto umano, di relazioni. Anche per riprendere il filo con il passato, per farlo rivivere nel presente come valore, esperienza, dimensione ancora vitale. E’ bene che ognuno di noi possa contare su un network fatto di famiglia, amici, ricordi, presente e – visto che ora c’è – anche il web. E’ chiaro, io sono del mio tempo, mi piace il pesce fresco: ma se oggi c’è il surgelato, va bene anche quello, non ne faccio una questione di principio in modo assoluto

La gogna del tweet. Si legge spesso di giovanissimi “torturati” per una frase postata, per un tweet. Possibile che un’esistenza sia condizionabile da 140 battute?
E’ questione di modalità, di un mezzo nuovo, uno strumento che prima non c’era. Ma la sostanza è quella dei rapporti umani. Anche ai miei tempi, a scuola, c’erano i ragazzi costretti a subire, oggetti di scherni, di attacchi o aggressioni che anche allora lasciavano il segno. Io stesso posso non aver compreso a quei tempi tante situazioni di disagio.

O si può arrivare alla tragedia del ragazzo che scrive agli amici su Facebook la sua volontà di farla finita…
Su questo piano ci sono situazioni e situazioni. Chi lo fa scherzo, tanto per vedere l’effetto che fa, o per contare gli amici “veri”, chi lo fa perchè sente il vuoto assoluto dentro e intorno a sè. L’Urlo di Munch. Ma anche in questo caso leggo la volontà di una testimonianza, la propria disperazione comunicata, urlata agli altri, fuori da sé. Oppure il desiderio di condivisione estrema, per lanciare quasi un messaggio dentro la bottiglia. Solo che la bottiglia naviga in rete…

Se non sei su Facebook non esisti. E se i tuoi followers da migliaia diventano centinaia ecco la disperazione in agguato. Così la pensano molti, non solo i giovanissimi.
E’ sempre una modalità di comunicazione. E’ la – chiamiamola – democrazia della rete. Non è lo stesso discorso di share e audience? Se un programma parte al 10 per cento e in un mese crolla al 2 non è la stessa cosa? Viene sospeso e la cosa diventa pesante per chi lo ha realizzato, quel programma. Solo che oggi quello share può riguardare tutti i naviganti della rete.

Decidendo di camminare come i trapezisti lungo il filo…
Anche stavolta non esagererei. Racconto della grandissima parte dei miei studenti. Hanno un ottimo rapporto con i nuovi media. Usano il web come uno strumento, non se ne fanno condizionare più di tanto. Molti sono ormai dei nativi digitali, ma con una forte cognizione anche di quello che viaggia al di fuori della rete. Come un buon viaggiatore: scopre una terra nuova, ci vive, ma il mondo non si esaurisce lì.

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