Venerdì scorso, 21 settembre, il direttore editoriale di “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta” Ugo Clemente e il giornalista Simone Di Meo sono stati insigniti del Premio Atreju 2018, nell’ambito della kermesse politica e culturale più importante della destra italiana organizzata e celebratasi a Roma.
Sul palco con Clemente e Di Meo c’erano don Luigi Merola, sacerdote noto per l’impegno anti-clan nelle periferie di Napoli e Filippo Facci, popolare giornalista di Libero Quotidiano.
Il tema della serata, Clemente lo ha individuato da subito, nell’incipit stesso del suo intervento: “Con questo premio avete voluto premiare chi fa l’anticamorra e marcare la distanza rispetto a chi invece fa dell’anticamorra una professione”.
Quindi Clemente ha passato in rassegna i fatti. E ha raccontato: “Quando Roberto Saviano è entrato nella nostra redazione si sono incontrati due mondi che sono molto distanti l’uno dall’altro. Il nostro, fatto di artigiani che fanno informazione anticamorra restando in Campania, restando sempre nello stesso posto ben individuabile anche dai camorristi. E un mondo che è quello invece della grande editoria che magari in quel momento – parliamo del periodo tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005 – aveva visto che c’era un argomento che poteva essere impacchettato e venduto. Parliamo di una guerra sanguinosa di camorra”.
Ma non basta: “Saviano – prosegue Clemente – di camorra non sapeva niente e viene in una redazione a chiedere del materiale. Da noi c’era una squadra interna alla redazione che si occupava della guerra di camorra, un po’ come nel film “Il Caso Spotlight”. Perché naturalmente parliamo di materia che richiede attività molto complesse per cui ci si deve confrontare con fonti istituzionali. Noi abbiamo spesso collaborato con le forze dell’ordine, per fare la nostra parte. Ecco, questa persona viene in redazione e ci dà rassicurazioni circa le citazioni al giornale se avesse utilizzato il materiale messo da noi a disposizione nel saggio che ci aveva detto di voler scrivere. Dopo di ciò, non se ne sente parlare fino al 2006. Quando viene pubblicato il romanzo Gomorra“.
Quello è l’inizio di un lunghissimo braccio di ferro. Che tracima, dalle aule di tribunale ai salotti televisivi, alle rubriche dei giornali. “Il primo ad accorgersi che il nostro lavoro era stato saccheggiato è stato Simone Di Meo – svela Ugo Clemente -, che ha chiesto a Saviano di testare la testata “Cronache di Napoli” e poi di citare anche lui. Dopodiché diversi altri colleghi hanno notato che alcuni passaggi di Gomorra suonavano loro “familiari”. Una piccola parentesi: la nostra paura più grande era quella di dare l’impressione di quelli attaccati all’articoletto. No, il problema non è quello. Il problema è che quegli articoli erano e sono frutto di un lavoro condotto con rischio personale per chi scrive, con l’esposizione personale dei giornalisti”.
Il clima in cui l’informazione si trova a lavorare nei territori di frontiera non è certo dei migliori. E Clemente lo dipinge così: “Il nostro è un giornale relativamente giovane, nato nel 1995 in provincia di Caserta. Lì c’era la camorra dei casalesi. Poi abbiamo fondato l’edizione napoletana che s’è occupata di quella napoletana. I nostri giornalisti hanno pagato spesso il prezzo della loro libertà e della loro voglia di lavorare. Un nostro giornalista fu trovato morto appena cinque mesi dopo la fondazione del quotidiano, carbonizzato, a Mondragone.Quando ci hanno minacciato – ha tuonato il direttore di Cronache -, non ci hanno mandato gli scagnozzi ma lo ha fatto direttamente gente come Sandokan, Francesco Schiavone, il boss assoluto del clan dei Casalesi. Nel ’98, due boss – che erano latitanti da tre anni e rimarranno tali per altri 13 – si incontrano apposta per fare una telefonata a un ragazzo di 19 anni, Carlo Pascarella che è un collega di quelli con la C maiuscola, non come Fazio e Saviano, per dirgli: “La devi smettere di scrivere tutte queste stronzate” Lui, invece che piangere, al telefono li ha anche presi in giro”.
Perciò l’amarezza di Clemente è ancora maggiore: “Mi chiedo se un collega come lui debba subire il trattamento che ha subito da Fazio e Saviano e ci metto anche De Benedetti. Abbiamo potuto sperimentare la potenza di fuoco di chi si può permettere una trasmissione in prima serata senza contraddittorio. Saviano, ha usato per tre volt la rubrica che ha su L’Espresso, per dire che il Corriere di Caserta è un giornale che “dà voce ai clan”. Noi che mai abbiamo intervistato nemmeno un collaboratore di giustizia. Questo, però, è stato il trattamento che c’è stato riservato”.
Il braccio di ferro, però, non s’è ancora concluso. “Abbiamo aspettato pazientemente che la vertenza si risolvesse, la Cassazione ha acclarato che il plagio c’è stato, ha rinviato alla Corte d’Appello per la quantificazione del danno da risarcire. Rispetto alla prima quantificazione, da 80mila euro, la cifra è stata ridimensionata a 6mila euro. A fronte di 40mila euro per spese legali che sono state sostenute. Abbiamo pagato, insomma, 34mila euro per avere ragione, ma non ci arrendiamo. Saviano non ci ha mai chiesto scusa”.
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