Il fallimento del sindacato unico dei giornalisti con la guida a sinistra è evidenziata dalle cifre della crisi dell’editoria. La più grande e profonda della storia del giornalismo italiano. L’Inpgi (l’ente di previdenza sostitutivo dell’Inps) è in pericolo. Non ha più i fondi per i pre-pensionamenti. Li ha esauriti, o meglio li ha prosciugati l’ultima ondata di pre-pensionamenti riguardanti la crisi della Rai (circa 200 giornalisti), del gruppo Rcs (sono in corso trattative per l’uscita di 800 dipendenti), del gruppo Espresso-Repubblica, della Stampa, del Sole 24 ore e quotidiani e tv minori. Esuberi a tonnellate da parte di editori che vogliono far quadrare i bilanci eliminando soltanto il personale giornalistico e poligrafico. La spesa per le pensioni erogate dall’Inpgi (108 milioni di euro) supera ormai le entrate (100 milioni). All’Inpgi resta un solido patrimonio immobiliare. Dovrebbe rivedere, però, l’organizzazione, partendo anche dallo snellimento del pletorico consiglio generale di oltre 120 persone.
La causa delle ristrutturazioni e delle dichiarazioni di stato di crisi non sono dovute solo al calo molto pesante della pubblicità. C’è qualcosa di più profondo nella crisi. L’editoria italiana è in coma. Il crollo delle vendite dei quotidiani e dei settimanali è preoccupante: dai 6 milioni di copie al giorno degli anni Novanta si è passati a circa 3 milioni e mezzo del 2012. I quattro maggiori giornali italiani (Corriere della sera, Repubblica, La Stampa, Sole 24 ore) non raggiungono il milione di copie. Le rese in edicola sono altissime, conseguenza anche di una cattiva distribuzione. Le ripercussioni della crisi si avvertono anche nell’industria della produzione di carta, tanto che il gruppo Burgo (11 stabilimenti in Italia) ha chiesto la cassa integrazione per 188 dipendenti. In grande difficoltà anche gli edicolanti che avevano minacciato la “serrata” durante i giorni delle elezioni, poi rinviata a seguito della fissazione di un incontro con il governo e gli editori. L’allarme è grande. Impressiona l’arretramento della “free press” che aveva puntato sui piccoli annunci pubblicitari locali per sfornare larghe tirature. L’editoria soffre anche in altri paesi, dagli Stati Uniti al Regno Unito.
È evidente che le responsabilità vanno ripartite. Sono mancate nell’ultimo decennio strategie lungimiranti da parte del governo (il balletto e le limitazioni sui contributi alla stampa hanno creato solo incertezze), degli editori che alla fine si sono rivolti ad un giornalista come Giulio Anselmi per contrastare la discesa economica e del sindacato dei giornalisti e dei poligrafici. Il governo e il Parlamento non hanno compreso che mentre esplodeva il fenomeno della Rete e del web occorreva modificare e rimuovere gli ostacoli alla concorrenza e al libero esercizio delle professioni. I partiti hanno perduto tempo dietro la legge sulla diffamazione, emanando alla fine norme peggiori delle precedenti. La legge dell’Ordine è datata 1963: 50 anni fa. L’accesso alla professione è un ibrido giuridico. Il sindacato unico con guida a sinistra è stato incerto, equivoco. Si è perso dietro battaglie politiche, ha rincorso la Cgil sulle normative, ha tralasciato la difesa dell’occupazione, dei livelli retributivi, abbandonato i pensionati che da 10 anni hanno arretrato le loro posizioni con il blocco delle rivalutazioni inflazionistiche. Alla Fnsi è mancata, in definitiva, l’elaborazione di un progetto che contrastasse la deriva come avvenne, invece, con la crisi tecnologica degli anni Ottanta.
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