Ai piani bassi della professione, le persone normali che provano a incamminarsi nella carriera di giornalista, discutono spesso della follia per cui,
in tutto il mondo cosidetto “civile” non serva alcuna iscrizione ad alcun ordine professionale per raccontare la realtà. In qualsiasi Paese “normale” se sei uno in gamba, puoi lavorare dentro un giornale, o cominciare un tuo blog, o fare il diavolo che vuoi con le parole, con le immagini, con i video, misurandoti solo con il mercato (se il tuo obiettivo é fare quattrini), con le regole e con la tua coscienza.
In Italia, pare già strano che un ordine, istituito dal fascismo, stia ancora in piedi al tempo del web, per autorizzare chi può mettere mano a una penna o a una tastiera e chi no. Ma questo non basta. Mentre ai piani bassi, si diceva, l’allucinazione pare quella di dover faticare quasi due anni per un tesserino di second’ordine, quello da pubblicista, oppure – vedi vedi – pagare decine di migliaia di euro per master utilissimi che ti consentono di partecipare “all’esame di stato”, il Parlamento che ospita il Governo della Svolta Buona che fa? Dice alle persone che non hanno anni da perdere appresso a redattori spesso decrepiti o non hanno soldi da buttare dentro università super innovative: “amico mio, non azzardarti a mettere mano alla tastiera senza
il bollo dell’Ordine perché se lo fai per me è come se tu mettessi mano alla pistola“. Punto.
Sul Corriere, Pierluigi Battista prende per i fondelli questo approccio. E Carolina Parisi, sull’Ultima Ribattuta, immaginava, leggendo la velina divulgata dallo Stato, questa dolce scena. Dentro una cella di un carcere naturalmente affollato, tre detenuti si confrontano. “Tu che hai fatto?”, “Spaccio”, “E tu?”, “Rapina”, “E tu?”, “Io non ho passato l’esame”.
A questo punto che si fa? Chi si oppone? O chi comincia a sparare a zero sugli interessi che girano attorno a decisioni del genere? Saranno iscritti all’Ordine, questi audaci cuori? Forse forse no. Saranno solo giornalisti.