Stupore fra i grattacieli di Londra, nei templi della finanza di tutto il mondo e nei salotti importanti dell’economia: il Financial Times, da tutti chiamato “il quotidiano della City”, è passato dal 23 luglio nelle mani di Nikkei Inc., il più grande gruppo editoriale asiatico con sede in Giappone, per una cifra record di 844 milioni di sterline, quasi un miliardo e 200 milioni di euro al cambio attuale. Piantata una bandiera giapponese nel cuore di Londra e dell’informazione politico-finanziaria internazionale. Un costo piuttosto “salato”, di circa 18 volte superiore all’ultimo utile operativo noto del Financial Times. Ma l’acquisizione assume significati a più livelli: di brand, simbolici e di concreta capacità d’influenza.
I giapponesi di Nikkei hanno condotto un’operazione a fari spenti scavalcando tutti i grandi gruppi occidentali che erano stati indicati dai rumors degli scorsi mesi come potenziali interessati all’acquisto del gruppo: Bloomberg, Reuters–Thompson, Murdoch ed il grande favorito della vigilia, Axel Springer. Poco prima dell’annuncio dell’acquisizione del Financial Times da parte di Nikkei, infatti, un articolo di Spiegel on line, citando fonti del gruppo, aveva affermato che il proprietario della Bild fosse vicino alla chiusura di un accordo (subito negato da Springer attraverso una nota ufficiale).
L’operazione è stata annunciata il 23 luglio dal quartier generale di Pearson, il gruppo britannico che controllava la testata – fondata 127 anni fa – dal 1957 e che si concentrerà ora sul suo core business: l’editoria connessa all’istruzione. Le ore che hanno preceduto la cessione sono state piuttosto convulse e si sono via via intensificate le voci su trattative avanzate. Solo quando Axel Springer si è chiamato fuori dalla corsa è stato chiaro che i pronostici erano stati ribaltati e alla fine è saltata fuori a sorpresa la pista giapponese, citata fino a quel momento solo come outsider.
Nikkei è la maggiore holding indipendente d’informazione finanziaria dell’Asia. Ha 139 anni di storia e possiede un giornale economico omonimo (il più diffuso al mondo con una tiratura superiore ai 3 milioni di copie), una serie di pubblicazioni giapponesi in inglese e alcune reti televisive. Inoltre, cosa decisamente non da poco, da il suo nome all’indice della Borsa di Tokyo. Grazie all’accordo con Pearson ora il colosso dell’economia del Sol Levante sbarca in Europa ed in America. Esclusa dall’accordo la partecipazione del 50% nell’Economist.
Quest’ultima parte è di grande interesse poiché, dopo il Financial Times Pearson sta trattando per vendere anche la sua partecipazione nell’Economist. Secondo fonti vicine alla vicenda, citate dallo stesso Ft, il potenziale compratore non sarebbe Nikkei, ma nemmeno Bloomberg, Reuters o Springer. La quota del gruppo londinese, acquisita nel 1957 come parte dell’acquisizione del Ft, varrebbe, sempre secondo fonti vicine alla trattativa, circa 400 milioni di sterline (oltre 500 milioni di euro). “Pearson conferma che sta discutendo con il board e il consiglio di amministrazione del gruppo Economist a proposito della potenziale vendita del suo 50%”, ha dichiarato l’editore in una nota.
Viene da chiedersi, a questo punto, come mai un editore come Pearson stia dando vita ad una specie di “fuori tutto”. Il Financial Times non era in crisi, anzi, come spiega un articolo dell’edizione online dell’Huffington Post, “viene venduto non perché è nei guai ma perché va bene. Ha 500 giornalisti in 50 sedi nel mondo, diffonde 737mila copie al giorno, di cui il settanta per cento digitali”.
La chiave sta nel guardare non tanto al presente, quanto al futuro. Un futuro in cui, spiega il blogger Ezra Klein, “entro tre anni quanti fanno informazione pubblicheranno i propri contenuti sul proprio sito, su una app di proprietà, su Facebook con Instant Articles, su Apple News, su Snapchat, via RSS, su Facebook Video, su Twitter Video, su YouTube su Flipboard e su almeno uno o due altri sistemi di operatori che nel frattempo nasceranno. I grandi editori faranno tutto questo simultaneamente”.
Quello che ne viene fuori è un contesto in cui i contenitori, le testate giornalistiche, perderanno progressivamente la loro importanza e autorevolezza a favore di social network e aggregatori di contenuti.
Un editore come Pearson, certamente consapevole di quello che probabilmente aspetta il mondo dell’editoria, ha deciso di vendere prima che fosse troppo tardi tentando di scatenare un’asta tra il più ricco editore dell’estremo oriente e il più dinamico dell’Europa continentale, il tedesco Axel Springer.
Il futuro dell’editoria sembra davvero dirigersi verso questi nuovi scenari, resta il fatto che nessuna previsione è accurata al 100%. Ma da questa vicenda si possono sicuramente trarre dei suggerimenti utili: gli editori dovrebbero trovare modi di generare quel valore aggiunto che porta ad ottenere significativi ricavi dalle loro piattaforme; i giornalisti devono prepararsi ad uno scenario ancora più caotico e concorrenziale al di fuori delle tradizionali testate perché i lettori saranno raggiunti sempre e comunque da un crescente volume d’informazione. Ora bisogna capire se alla quantità si accompagnerà anche la qualità.
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