LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI, SI LEGGE NELLE AULE DELLE FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA. E i professori spiegano ai loro studenti che l’uguaglianza è la pretesa di ciascuno a ricevere quello stesso trattamento applicato a chi versi in situazioni analoghe alla propria. Il docente completerà la lezione ricordando che la regola opera nei confronti, non solo del giudice, ma innazitutto del legislatore, al quale il costituente ha imposto di disciplinare casi simili in modo uguale e di differenziare situazioni ragionevolmente incomparabili. Quindi, la prima parità di trattamento il cittadino la dovrà esigere dal legislatore. Del resto se così non fosse, cioè se il legislatore potesse imporre indisturbatamente trattamenti discriminatori, la seconda parità, quella dinanzi al giudice, sarebbe del tutto inutile, perché se la regola è ingiusta, anche la sua applicazione lo sarà. Lo stesso studente giunto alla fine del suo corso di studi avrà probabilmente imparato che ogni legislatore, nazionale o locale, interno o comunitario, politico o indipendente, sarebbe tenuto a soddisfare la pretesa all’equiordinazione. Ma fuori dalle aule le cose prendono un corso diverso da come quel diligente studente si sarebbe atteso. Facciamo un esempio. È tempo di elezioni e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha dettato le regole della comunicazione politica per le tv private nazionali e locali, ma si è astenuta dal disciplinare le molteplici forme diffusive o comunicative circolanti in rete. Tale silenzio, a suo dire, sarebbe giustificato dal fatto che il legislatore non le avrebbe puntualmente attribuito il potere normativo sulla rete. Questa esimente non mi convince per due ragioni. In primo luogo, la legge 28/00 attributiva del potere di regolare la par condicio è suscettibile di interpretaziune evolutiva, passaggio obbligato almeno rispetto alle espressioni elastiche o tecnicamente definibili, tale è il caso dei «mezzi di informazione», solo esemplificati negli articoli seguenti, ma non di certo blindati in un elenco rigido e inalterabile nel tempo. Inoltre, la direttiva tv senza frontiere e il suo atto di recepimento equiparano nella disciplina i servizi audiovisivi a prescindere dal mezzo o dalla piattaforma trasmissiva impiegata stante l’identico vantaggio procurato all’utente finale: un’informazione completa e comparativa in ordine all’offerta politica indipendentemente dal mezzo, tv tradizionale o tablet, o dalla piattaforma, digitale terreste o rete internet, impie gata. In punto di diritto sarebbe sostenibile l’inverso: direttiva e suo recepimento impongono, non meramente consentono, una lettura estensiva dei poteri dell’Autorità, la sola che renderebbe la legge sulla par condicio conforme col dettato comunitario. Ancora un argomento. Ho iniziato ricordando che l’art. 3 Cost, assegna a ciascuno di noi il diritto di pretendere regole uguali in situazioni uguali da chiunque sia l’autore delle regole. E allora perché la tv tradizionale deve essere sottoposta a blindature di tempi, forme e modi, mentre quella in Internet è libera nella scelta di chi far parlare, di come e per quanto tempo? Se situazioni uguali ricevono trattamenti diametralmente opposti, tale omissione legislativa è costituzionalmente illegittima. Chapeau, nel caso in cui, invece, l’Autorità si fosse interrogata su che tipo di regole dettare e se, in nome dell’art. 3, avesse risposto diversificando in forza del tipo di strumento usato. Una cosa è cinguettare, attività disponibile a chiunque, e quindi non sottoponibile a limiti numerici o di forma perché come cinguetta Monti può farlo parimenti Bersani; altro è occupare con monologhi web tv o Iptv, le quali, essendo limitatamente accessibili, pongono problemi di pariordinazione nell’uso, analoghi a quelli del mezzo tradizionale. In conclusione, l’Autorità, più che tacere, avrebbe dovuto avviare un articolato discorso sulle regole in Internet, dando così prova di indipendenza verso il potere politico e di osservanza della legalità costituzionale.