A 48 anni dal varo della legge che regola l’ordine dei Giornalisti, la numero 63 del 1969, il Parlamento potrebbe vararne la riforma. Vale a dire: si potrebbe sfatare un tabù, dal momento che nessuno ci era riuscito prima. Eppure gli animi non sono tranquilli: mentre c’è chi si augura che la riforma diventi al più presto legge della Repubblica, c’è anche chi, tra gli osservatori e gli addetti ai lavori, accusa che questa non migliora bensì aggrava i problemi dell’ordine.
I PUNTI DELLA RIFORMA
Ma dov’è che va a intervenire la proposta? Quali le innovazioni tese ad aggiornare agli standard del XXI secolo il profilo di un ordine professionale delineato nella prima metà degli anni ’60? Le novità, sviluppate sulla falsa riga del documento di indirizzo per la riforma approvato all’unanimità dal consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti, riguardano prevalentemente i seguenti punti: l’accesso alla professione, la composizione del consiglio nazionale e le regole elettorali, l’istituzione di una commissione deontologica e quella di un giurì per la corretta informazione.
Entriamo nei particolari. Accesso alla professione: per partecipare alla prova di idoneità di iscrizione alla lista dei professionisti il titolo di studio minimo diventa la laurea triennale (non più il diploma di maturità, quindi), cui deve far seguito il compimento della pratica attraverso una laurea specialistica o magistrale di ambito giornalistico (con almeno il 50 per cento dell’attività didattica svolta in stage presso redazioni), oppure tramite il conseguimento di un master in giornalismo presso una delle scuole convenzionate con l’Ordine o tramite i corsi di formazione biennali riconosciuti.
Cambia anche l’accesso alla lista dei pubblicisti: mentre ad oggi “basta” dimostrare il rapporto continuativo e retribuito con una o più redazioni per un periodo di almeno due anni, la riforma prevede l’introduzione di un colloquio da svolgersi presso il consiglio regionale dell’ordine, o, in alternativa, la frequentazione di quarantacinque ore di corso formativo promosso dallo stesso ordine.
In merito al consiglio nazionale, la legge 63 del ’69 contempla un meccanismo “espansivo” per il quale ogni regione aumenta la propria rappresentanza in base al numero di iscritti. Il principio, valido “in un’epoca in cui gli addetti al giornalismo erano poche centinaia – si legge nel testo della riforma – ha portato oggi a una cifra spropositata di consiglieri”: più di 130 nel 2009 contro i 45 del 1969. La riforma prevede allora l’ancoraggio della sua composizione al numero fisso di 90 consiglieri così da “snellire le procedure e migliorare l’operatività dell’istituto”.
Venendo alle questioni disciplinari, la proposta di legge 2393 prevede due delle innovazioni più interessanti. Da un lato si propone la costituzione di una commissione deontologica, composta da nove membri espressi dal consiglio nazionale, che vada a prendere la funzione di “corte d’appello” delle decisioni sanzionatorie inflitte dai consigli regionali ai propri iscritti proprio al posto del consiglio nazionale. Secondo il testo dell’articolo 5 della riforma, le deliberazioni della commissione per la sanzioni non superiori alla censura sono definitive (per quanto sempre impugnabili in base all’articolo 63 della legge 63 del 1969), mentre in caso di ammenda pari o superiore alla censura vi sarebbe un terzo grado di giudizio offerto dal consiglio nazionale.
Oltre che la commissione deontologica, la riforma propone anche l’istituzione di un Giurì per la corretta Informazione, da insediarsi presso ogni distretto di corte d’appello e costituito da cinque membri in carica per cinque anni non prorogabili: due nominati dall’Agcom, due dal consiglio dell’ordine e uno tra i magistrati della corte d’appello. Funzione del giurì è quella di “organo terzo chiamato a dirimere – si legge nel documento di orientamento stilato dal consiglio nazionale dei giornalisti – su richiesta degli interessati, conflitti tra giornalisti e cittadini che si ritengano danneggiati da notizie false”.
L’ITER
La proposta di legge in materia, presentata nell’aprile del 2009 con primo firmatario Pino Pisicchio e rubricata con il numero 2393, ha ricevuto l’ok dalla Commissione Cultura della Camera lo scorso febbraio. Il suo iter, prima dell’eventuale approvazione, prevede ancora il visto delle altre commissioni e del Governo e poi il passaggio al Senato. A farle concorrenza ci sono allo studio del Parlamento, rispettivamente una alla Camera e l’altra al Senato, due proposte targate Pdl tese all’abrogazione dell’Ordine. In vantaggio, però, rimane la riforma per lo meno per due motivi: a differenza delle due proposte per l’abolizione, che sono monocolore, la 2393 è sostenuta in maniera trasversale da deputati di maggioranza e delle opposizioni; la proposta, oltretutto, gode del favore del consiglio nazionale dell’ordine dei Giornalisti mentre le richieste di abrogazione sono osteggiate dai rappresentanti dell’istituto.
LE CRITICHE
La proposta di legge, come si diceva in apertura, non è esente da critiche piovute da più fronti e su più argomenti. Ma, come vedremo, sono soprattutto gli stessi giornalisti ad aver avuto molto da ridire.
Gli “oppositori” storici dell’esistenza stessa di un ordine dei giornalisti (i quali, più che di ordine, preferiscono parlare di “corporazione”) puntano il dito contro l’incapacità della riforma di intervenire sulle due “anomalie italiane” per eccellenza: il sussistere di una selezione, o meglio di un passaggio forzato, “all’ingresso” per chi voglia fare del giornalismo la propria prima attività (cosa che nel resto del mondo occidentale o non avviene o si pratica in maniera meno restrittiva), e che ci siano i presupposti perché colleghi giudichino ed eventualmente sanzionino l’operato di propri colleghi.
In merito all’accesso alla professione, i critici lamentano che la proposta di legge vada a sclerotizzare ancora di più il mercato del lavoro: ciò alzando la soglia minima di istruzione richiesta alla laurea triennale e spostando in fatto di pratica l’ago della bilancia a favore di un’istituzione controversa quale la scuola di giornalismo.
Su questo tema si è speso molto Ugo degl’Innocenti, ex redattore di testate come Milano Finanza e Italia Oggi, delegato alla Fnsi e attualmente addetto stampa del consiglio regionale del Lazio. Sulla rivista online “Critica Liberale”, in particolar modo, Degl’Innocenti ha scritto: “quella che si propone è una riforma liberticida da paese totalitario, che appare congeniale solo al sistema universitario italiano, sempre in cerca di nuovi specchietti per attrarre studenti, non certo alla categoria dei giornalisti”. L’accusa di Degl’Innocenti è che il sistema delle scuole e dei master (definite “fabbriche di disoccupati”) non sia utile ai giovani aspiranti giornalisti, ma solo agli atenei che incassano le rette di iscrizione e ai professionisti che si aggiudicano le docenze. Che le scuole non servano a introdurre i propri iscritti nel mondo del lavoro, sostiene il giornalista, lo dimostra la constatazione che “dal 2003 al 2010 sono stati ammessi all’esame di stato 1800 allievi provenienti dalle scuole. Il che significa che 1800 aspiranti professionisti privi di un contratto di lavoro come coloro che sono stati ammessi come vuole la legge, sono stati immessi in un mercato del lavoro che interessa poco più di 15 mila professionisti”. Il successo, o meglio l’insuccesso, di questi giovani “scolarizzati” alla prova con il mondo del lavoro è testimoniato, conclude Degl’Innocenti “dall’aumento esponenziale degli iscritti negli elenchi dei disoccupati tenuti dalla commissione Fieg-Fnsi: 1500 nel 2004, 2650 nel 2006, 4718 al settembre 2010”.
Anche su questioni di natura tecnica non sono mancati i malumori. A proposito dell’articolo 4 della riforma, quello che propone la riduzione del consiglio nazionale a 90 componenti, si è addirittura levato un documento di protesta sottoscritto da 80 consiglieri. Il motivo dell’insoddisfazione si potrebbe definire politico, dal momento che ruota intorno alla suddivisione delle quote in consiglio tra professionisti e pubblicisti: “dei 90 consiglieri – si legge nel documento – 60 sarebbero professionisti e solo 30 pubblicisti”; il dato stride con la constatazione che all’ordine “sono iscritti oltre 71.000 pubblicisti e circa 25.500 professionisti. Visti i numeri, risulta quindi inspiegabile la proporzione di 2 a 1 con la rappresentanza dei pubblicisti che passerebbe dal 48,6% al 33,3%”.
L’osservazione più pungente sulle mancanze della proposta viene da un altro giornalista ancora, Ivo Caizzi del Corriere della Sera. Notando come la riforma senta l’esigenza di ridefinire il ruolo degli iscritti alla lista dei professionisti e dei pubblicisti, Caizzi denuncia il suo non affrontare la questione degli iscritti all’ordine che però non fanno del giornalismo la propria attività principale. “L’ordine – sono le parole del redattore del Corsera – accoglie e definisce giornalisti addirittura soggetti in potenziale conflitto d’interessi come politici di mestiere, portaborse, pr, lobbisti e altre tipologie a libro paga di aziende, banche, enti pubblici e privati. Secondo le regole in vigore – prosegue – non sarebbe stato giornalista professionista addirittura lo storico corrispondente da New York e poi direttore del Corriere della Sera Ugo Stille, mentre incredibilmente lo sarebbero notabili del Palazzo come Giulio Andreotti, Massimo D’ Alema, Walter Veltroni o Gianfranco Fini (al tempo stesso quindi controllati e controllori del potere)”.
La considerazione di Caizzi non è peregrina e, leggendo i nomi dei dieci deputati che hanno firmato la proposta di legge, risulta ancora più calzante. Cominciamo la scorsa da Pino Pisicchio, il primofirmatario: cresciuto nella Dc, eletto nelle fila dell’Idv e poi passato nell’Api, oltre che ricercatore universitario è giornalista professionista; Sandra Zampa e Giorgio Merlo del Pd sono giornalisti; Giuseppe Giulietti, Idv, è giornalista Rai nonché sindacalista del settore; Roberto Rao, Udc, è dottore in giurisprudenza e giornalista; Francesco Pionati e Giancarlo Lehner, del gruppo dei Responsabili, sono rispettivamente giornalista Rai ed ex direttore de L’Avanti!; Giancarlo Mazzuca e Piero Testoni del Pdl non si fanno mancare il tesserino dell’ordine essendo stati a loro volta l’uno direttore del Resto del Carlino e l’altro responsabile della comunicazione e dell’editoria di Forza Italia; Matteo Salvini della Lega Nord, infine, è giornalista professionista avendo rivestito la carica di direttore di Radio Padania Libera (della quale è ancora collaboratore) e scrivendo per la testata del carroccio La Padania.
Il sospetto che la loro, in merito alla questione dei politici-giornalisti, non sia stata una dimenticanza, ma una scelta deliberata, è un sospetto più che fondato.
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