L’Unità è una parte della storia di questo Paese, è stata volano di dibattito, di opposizione e di Governo; è stato un simbolo della difesa di idee e di progettualità, condivisibili o meno; è stata tribuna, megafono, curva, consesso, spazio di libertà. E l’assenza dell’Unità pesava su un sistema d’informazione messo in ginocchio dalla crisi economica e dalle difficoltà specifiche dei giornali di opinioni orientate verso un mercato digitale che non c’è, disorientare dal mercato cartaceo, che si sta disgregando.
Ed il primo numero della prima serie è stato atteso proprio come simbolo della possibile rinascita dei giornali, attraverso un pezzo, come detto, fondamentale della storia dell’informazione italiana. Ma non a pochi è ribaltata agli occhi la contraddizione di un primo numero in cui il direttore annuncia la scelta di rinunciare al finanziamento pubblico, puntando esclusivamente sui numeri del mercato; scelta coraggiosa e condivisibile, ma, oggettivamente, contraddetta dalla copiosa messa di spazi pubblicitari ceduti, sin dal primo numero, ad aziende pubbliche o istituzionali: per intenderci Enel, Eni, Poste e San Paolo di Torino.
Il finanziamento pubblico deriva da una legge, la pubblicità dalle società pubbliche, o con grandi interessenze pubbliche, basti pensare alle concessionarie, dagli input dei Governi. Nessun giornale che vende quanto vende l’Unità raccoglie quel tipo di pubblicità; e questa è un’anomalia tutta italiana; ma la decisione di investire così tanto sull’Unità è un’anomalia nell’anomalia. E nella Repubblica degli spot bisogna fare attenzione anche agli spot.
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