E’ l’inquietante finale de La società della trasparenza, saggio del filosofo tedesco-sudcoreano Byung-Chul Han uscito un anno fa in Italia per le edizioni Nottetempo. A dominare su tutto, il “panottico digitale”, una sorta di Moloch, il nero monolite di “2001 Odissea nello spazio”, la grande (blogo)sfera bianca de “Il prigioniero” Patrick McGoohan anni ’70, una entità orwelliana in grado di determinare i destini del mondo. Il panottico nasce in realtà qualche secolo fa, parto del giurista Jonathan Benthan che lo inventò nel 1792: è il “carcere perfetto”, dove lo sguardo (ottico) del Grande Sorvegliante osserva tutti (pan, i detenuti) senza essere osservato. Ai nostri giorni – secondo Han – è la Grande Rete alla quale ci siamo tutti (o quasi) auto-consegnati, volontariamente, a occhi chiusi, fiduciosi nel nostro sogno di libertà. Proprio come chiunque di noi, oggi, non è più “marxianamente” sfruttato dall’altro, dal padrone, ma si auto-sfrutta, consegna sé al padrone che è dentro di lui. Una trappola, in qualche modo, ancor più atroce: perché intelligente, invisibile, democratica, aperta, profumata di libertà. Proprio come quel panottico digitale.
E’ appena uscito, sempre per i tipi di Nottetempo, l’ultimo saggio di Han – docente di Filosofia alla Universitat der Kunste di Berlino – Nello sciame – visioni del digitale. Qualche giorno fa abbiamo pubblicato ampi stralci di un’intervista sul fresco di stampa realizzata dal giornalista e scritto spagnolo Alfonso Armada. Ora passiamo in rassegna alcuni fra i passaggi salienti dello “sciame”, non meno inquietanti del brano che chiudeva il lavoro precedente.
Media digitali e media tradizionali – “Oggi non siamo più solo passivi recettori e consumatori di informazioni, ma siamo anche emittenti e produttori attivi. Non ci accontentiamo più di consumare passivamente le informazioni, ma vogliamo produrle e comunicarle in maniera attiva: siamo al tempo stesso consumatori e produttori. Questo doppio ruolo fa crescere a dismisura le informazioni. (…) I media digitali si differenziano dai mass media come radio e televisione: media come i blog, Twitter o Facebook de-medializzano la comunicazione. Oggi la società dell’opinione e dell’informazione si fonda su questa comunicazione de-medializzata: ciascuno produce e diffonde informazioni. La de-medializzazione della comunicazione fa sì che i giornalisti – questi rappresentanti un tempo privilegiati, questi ‘opinion makers’ e sacerdoti dell’opinione – appaiano del tutto superflui e anacronistici. Il medium digitale abolisce ogni casta sacerdotale: la generale de-medializzazione porta a compimento l’epoca della rappresentazione. Oggi ciascuno vuole essere direttamente presente e presentare la propria opinione senza alcun intermediario. La rappresentazione cede il posto alla presenza e alla co-presentazione. (…) (…) Per redigere notizie accertate i giornalisti mettono in gioco persino la loro vita. Al contrario, la de-medializzazione porta in molti ambiti a una massificazione: lingua e cultura si appiattiscono”.
Dal Reale allo Smarthphone – “Per via dell’efficienza e della comodità della comunicazione digitale evitiamo sempre più il contatto diretto con le persone reali, anzi proprio il contatto con il Reale. Il medium digitale porta alla progressiva scomparsa della controparte reale, la percepisce come un ostacolo. In questo modo, la comunicazione digitale diviene sempre più priva di corpo e di volto. Il digitale sottopone la triade lacaniana di Reale, Simbolico e Immaginario a una trasformazione radicale: riduce il Reale e totalizza l’Immaginario. Lo smartphone ha la funzione di uno specchio digitale per la riedizione post infantile dello stadio dello specchio: dischiude uno spazio narcisistico, una sfera dell’Immaginario nella quale rinchiudermi. Attraverso lo smartphone non parla l’Altro. Lo smartphone bandisce ogni forma di negatività: per suo tramite di disimpara a pensare in maniera complessa. Fa avvizzire le forme comportamentali che richiedono ampiezza temporale o lungimiranza: esige rapidità e miopia, e dissolve ciò che è lungo e lento. (…) Perpetua l’Uguale. (…) (…) Il digitare sul touchscreen è un movimento che implica una conseguenza nella relazione con l’Altro: annulla quella distanza che è costitutiva dell’Altro nella sua alterità. Si può digitare perciò sull’immagine, toccarla direttamente, perchè essa ha già perso lo sguardo, il volto. Dispongo dell’altro come se lo tenessi tra pollice e indice. Spostiamo l’Altro con un tocco di dita, per far apparire la nostra immagine speculare. Il touchscreen dello smartphone si potrebbe chiamare schermo trasparente: è privo di sguardo. (…) (…) Dagli smartphone, che promettono più libertà, deriva una costrizione fatale: la costrizione a comunicare. Nello stesso tempo, abbiamo un rapporto quasi ossessivo, coatto con il dispositivo digitale. Anche qui la libertà si rovescia in costrizione. I social network rafforzano enormemente questa costrizione alla comunicazione: essa è prodotta, in ultima analisi, dalla logica del capitale. Più comunicazione significa più capitale: la circolazione accelerata di comunicazione e informazione porta alla circolazione accelerata del capitale”.
La nuova schiavitù digitale – “Certo, oggi siamo liberi dalle macchine dell’epoca industriale che ci schiavizzavano e ci sfruttavano; i dispositivi digitali, tuttavia, producono una nuova costrizione, una nuova schiavitù. Ci sfruttano in modo ancor più efficiente perchè – grazie alla loro mobilità – trasformano ogni luogo in un posto di lavoro e ogni tempo in un tempo di lavoro. La libertà della mobilità si rovescia nel fatale obbligo di dover lavorare ovunque. (…) Oggi anche il lavoro è reso mobile dal dispositivo digitale. Ciascuno si trascina appresso il posto di lavoro come un campo di lavoro. Così, non possiamo più sfuggire al lavoro. (…) La parola ‘digitale’ rimanda al dito (digitus), che – soprattutto – conta. La cultura digitale si basa sul dito che conta: la storia, invece, è racconto. La storia non conta: contare è una categoria poststorica. Nè i tweet né le informazioni si combinano in un racconto: neppure il diario di Facebook racconta la storia di una vita, una biografia. E’ un additivo, non narrativo. L’uomo digitale gioca con le dita nel senso che conta e calcola ininterrottamente: il digitale assolutizza il numerare e il contare. Anche gli amici su Facebook vengono soprattutto contati: ma l’amicizia è un racconto. L’era digitale totalizza l’additivo, il contare e il contabile. Persino le simpatie vengono contate sotto forma del ‘mi piace’. Il narrativo perde notevolmente di significato: oggi tutto viene trasformato in qualcosa di contabile, per poter essere tradotto nel linguaggio della prestazione e dell’efficienza. Così, tutto ciò che non è contabile cessa di essere”.
Vite strettamente sorvegliate – Se nel precedente saggio il finale era grigio scuro, nello “Sciame” arriviamo a svariate sfumature noir. Ecco alcuni passaggi dal capitolo “Protocollare l’intera vita”. “Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa ricostruibile. Ovunque dietro di noi lasciamo tracce digitali: la nostra vita digitale si imprime fedelmente nella rete. Attraverso il controllo, la possibilità di protocollare l’intera vita sostituisce integralmente la fiducia. Al posto del big brother c’è il big data. La società della sorveglianza digitale presenta una peculiare struttura panottica: il panottico benthamiano è costituito di cellule isolate l’una dall’altra. I detenuti non possono comunicare tra loro. Vengono esposti alla solitudine perchè possano migliorare. Gli abitanti del panottico digitale, invece, si connettono e comunicano intensamente l’uno con l’altro: il controllo totale è reso possibile non dall’isolamento spaziale e comunicativo, bensì dalla connessione in rete e dall’iper-comunicazione. Gli abitanti del panottico digitale non sono prigionieri: vivono nell’illusione della libertà. Nutrono il panottico digitale d’informazioni, esponendo e illuminando volontariamente se stessi. L’auto-illuminazione è più efficace dell’illuminazione da parte di altri. Vi è qui un parallelismo con l’auto-sfruttamento: quest’ultimo è più efficace dello sfruttamento esercitato da altri, perchè si accompagna al sentimento della libertà. (…) Sorveglianza e controllo sono una parte essenziale della comunicazione digitale. Il tratto caratteristico del panottico digitale consiste nel fatto che la distinzione tra big brother e detenuti sfuma sempre di più. Qui ciascuno osserva e sorveglia ogni altro: non ci spiano solo i Servizi segreti di Stato. Imprese come Facebook o Google lavorano esse stesse come Servizi segreti: illuminano le nostre vite per trarre profitto dalle informazioni che carpiscono. Le aziende spiano i loro dipendenti; le banche esaminano i potenziali creditori. (…) ‘Noi vi offriamo uno sguardo a 360 gradi sui vostri clienti’: con questo slogan la Acxiom, un’azienda americana di analisi dei big data, si procaccia incarichi. Gestisce un’enorme banca dati con milioni di server. La sua sede legale, nell’Arkansas, è protetta da cancelli e strettamente sorvegliata come fosse un edificio dei Servizi segreti; dispone dei dati personali di trecento milioni di cittadini americani, cioè quasi tutti, Chiaramente Acxiom sa di più sui cittadini americani di quanto ne sappia l’FBI o l’IRS (l’agenzia delle entrate americana)”.
Un mondo in Google Glass – “I Google Glass ci permettono una libertà illimitata: il fondatore di Google, Sergey Brin, si entusiasma per le meravigliose immagini che i Google Glass producono grazie alla loro funzione di scattare in automatico una foto ogni dieci secondi. Senza i Google Glass queste fantastiche immagini non sarebbero assolutamente possibili: proprio i data-occhiali, invece, ci consentono di essere costantemente fotografati e filmati da estranei. Con i data-occhiali ognuno indossa, in pratica, una telecamera di sorveglianza: proprio così, i data-occhiali trasformano anche l’occhio umano in una telecamera di sorveglianza. Il vedere coincide integralmente con il sorvegliare: ciascuno sorveglia ogni altro. Ognuno è big brother e prigioniero allo stesso tempo. E’ questo il compimento del panottico benthamiano”.
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