Il flop del referendum è oggettivamente clamoroso. Non solo per la scarsissima affluenza alle urne ma anche per la consistente quota dei votanti che hanno detto no. E, come spesso accade in questi casi, i promotori attribuiscono la responsabilità all’informazione che si sarebbe poco occupata di questi temi. Ma non è così.
L’offerta di informazione non può che incrociare, nelle sue dinamiche, la domanda. E i quesiti dei referendum che sottendevano libertà personali erano incredibilmente tecnici. Ma soprattutto non risolvevano il problema né della gestione della giustizia in Italia né delle responsabilità dei magistrati. Erano quesiti asfittici, che non hanno appassionato, né erano appassionanti rispetto ad un’opinione pubblica che ha oggi ben altre passioni. Ma a volerla dire tutta la responsabilità dei cittadini è anche limitata perché tra i promotori dei quesiti referendari ci sta quello stesso un leader politico che due settimane fa ha esultato per l’arresto del ragazzo al quale aveva citofonato chiedendogli se fosse uno spacciatore.
Che effetto ha avuto chi doveva votare sì sapere che tra i sostenitori politici ci sono politici di primo piano, e non uno solo, che utilizzano nella loro dialettica frasi come “buttare le chiavi” e “marcire in galera”. E allora le ragioni del no non stanno nella cattiva informazione, ma nell’ammuina in cui si sono lanciati i garantisti, senza comprendere che nella melma vince sempre chi taglia le teste, perché, semplicemente, quelle ragioni sono più semplici da urlare. Non è un problema di informazione, ma di cultura, anzi di sensibilità alla cultura della libertà.
Le grandi battaglie civili hanno come premessa coerenza e linearità. Pensare che in un Paese in cui appena quattro anni alle elezioni ha visto trionfare due partiti giustizialisti e massimalisti come il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini potessero vincere le ragioni del garantismo significa chiudersi nel salotto buono per parlarsi addosso. La cultura non si impone, ma si coltiva.