“Ne ammazza più la penna”, di Pier Luigi Vercesi, è un’interessante trattazione sulla storia d’Italia, con protagonisti coloro che l’hanno narrata: i giornalisti. Si parte nel periodo ancora precedente all’Unità per arrivare agli anni Sessanta del Novecento. Vercesi non porta all’attenzione del lettore l’evoluzione del giornalismo in sé. Egli è più interessato a raccontare le vicende dei singoli, in relazione al quadro storico in cui sono vissuti. Si crea, perciò, una simbiosi tra il lavoro giornalistico e gli eventi che hanno fatto la storia d’Italia: scorrono davanti agli occhi del lettore le innovazioni politiche, culturali e sociali a cavallo di due secoli. Viene delineata la necessità della neonata società italiana di un’informazione radicata sul territorio. Una volontà certificata dal passaggio dai fogli per metà letterari e per metà politici ai veri e propri notiziari. Il cambiamento è così evidenziato da Vercesi: “Lo Stivale, diventato nazione, voleva conoscere per poter esprimere maggioranze di governo. Nel più recente passato i giornali si proiettavano nel futuro. Adesso dovevano guardare al presente”. Il sottotitolo del libro (storie d’Italia vissute nelle redazioni dei giornali) rappresenta perfettamente il senso editoriale del lavoro di Vercesi. L’autore ci mostra svariate tipologie di cronisti, famosi e non. Si va da quelli che hanno fatto la storia del mestiere con la loro acutezza e intraprendenza a quelli che, invece, hanno più volte chiuso entrambi gli occhi. Pellico, Carducci, Barzini, Montanelli: sono solo alcuni dei profili tratteggiati da Vercesi. L’attualità non è contemplata nella trattazione, ma in un certo senso i richiami del passato ci aiutano a capire il presente. Il riferimento è alle caratteristiche di alcuni giornalisti di oggi: l’ossequio al potere, la mancanza di oggettività, il qualunquismo.