E’ un passaggio di grande rilevanza, l’assemblea nazionale che Articolo 21 ha convocato per il 2 e 3 marzo. C’è un estremo bisogno di andar oltre il gigantesco sospiro di sollievo che ha accompagnato l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi, e fare i conti con i problemi nuovi che all’autonomia dell’informazione la situazione nuova pone. La sensazione – forte, consolidata, a tre mesi dalla nascita del governo Monti – è che il pluralismo dell’informazione non venga neanche percepito come questione rilevante: non è tra i parametri economici che ogni settimana sono oggetto di incontri a Bruxelles o a Strasburgo, dunque perché perderci tempo?
Lo si avverte, per esempio, dalla difficoltà ad ottenere un intervento serio in tema di finanziamento pubblico all’editoria. Forse si arriverà, dopo molti sforzi, a rimpinguare il Fondo, ma è chiaro che la propensione più naturale di Monti è quella al taglio: se il “mercato” non li tiene in piedi, vuol dire che non lo meritano, no? Come ha detto con grande eleganza Carlo De Benedetti, sollecitando la sepoltura dei giornali “morti”: senza essere sfiorato dal sospetto che la quantità di conflitti di interesse che stravolge l’informazione italiana (quello di Berlusconi, ma anche quelli dei più grandi editori della carta stampata, De Benedetti incluso) debba suggerire qualche pudore in più nell’allestire il corteo funebre. “Né tagli, né bavagli”, dicevamo due anni fa. E di quello slogan porta memoria l’insieme delle proposte che avanza il documento di Beppe Giulietti per l’assemblea: una ricca riprova del fatto che la nostra mobilitazione di allora non era guidata da una “ossessione” antiberlusconiana, ma dal proposito positivo di dar gambe al diritto di essere informati, in Europa e in Italia.
Dei tanti temi che si intrecceranno nella due giorni mi soffermo qui sulla vicenda Rai, perché purtroppo particolarmente idonea a dimostrare che la difesa dell’autonomia dell’informazione è merce rara, anche all’epoca dei “tecnici”. Sembra essere stata accantonata, per fortuna, l’ipotesi di un commissariamento governativo che costituirebbe un’autentica entrata a gamba tesa. Ed è certo positivo che – come dicono i resoconti di questi giorni – si voglia riformare la legge Gasparri. Il problema è che la discussione politica prevalente verte soltanto intorno alla necessità di dare alla Rai un vertice “ristretto, snello, efficiente”. Sembra importante esclusivamente ridurre i consiglieri (da 9 a 5) e risolvere la tradizionale diarchia Presidente-Direttore Generale grazie ad un nuovo Amministratore Delegato che guidi l’azienda in modo univoco e non frenato da troppe discussioni. Come se la crisi di legittimazione della Rai derivasse solo da un deficit di efficienza, risolvibile col “bravo tecnico” (ovviamente di indicazione governativa).
No, così non va. Il servizio pubblico radiotelevisivo va sì gestito con correttezza, ma anche a Monti e a Passera va ricordato che la Rai non può stare alle dipendenze del governo di turno. Lo dicevamo a Berlusconi, e non abbiamo alcuna intenzione di tacerlo oggi. Ha ragione Monti quando sostiene che è un’anomalia che il governo non possa intervenire in modo diretto sulla Rai essendone azionista al 99,6 per cento. Ma l’anomalia va risolta non accrescendo il potere del governo sulla Rai (già notevolissimo), ma cambiandone l’azionista: le quote della Rai non possono stare in mano al Ministero dell’Economia, ma devono andare ad una Fondazione della quale facciano parte soggetti meno “insidiosi” per l’autonomia del servizio pubblico.
In questo clima da hola tecnocratica sono state rimosse senza colpo ferire le diverse proposte sulla cosiddetta governance che in un passato recente avevano cercato di coniugare le esigenze di efficienza della gestione e l’obiettivo di rinsaldare il rapporto tra la Rai e i cittadini. Penso alla proposta di Tana de Zuleuta, al disegno di legge dell’allora ministro Gentiloni, al testo di Roberto Zaccaria. Diversi, ma tutti imperniati su un “doppio livello”. Il primo è un organismo più largo, con funzioni di indirizzo: per de Zulueta e Gentiloni i suoi componenti vengono nominati da una combinazione di soggetti istituzionali, sociali e culturali; per Zaccaria sono scelti dagli abbonati. Questo Consiglio largo a sua volta nomina il CdA ristretto, a 5: esattamente il numero su cui sta lavorando anche il governo in carica (a conferma del fatto che non solo i “tecnici” hanno a cuore l’efficienza, ma anche coloro che non vogliono trascurare il radicamento sociale del servizio pubblico). Di queste proposte non ce la minima traccia nel dibattito in corso. Trovo questo accantonamento offensivo verso le forze sociali che in questi anni, nella stagione delle censure più brutali, si sono battute con passione per difendere un’altra idea di servizio pubblico. Lo trovo inoltre suicida rispetto alla vitalità partecipativa che, appena pochi mesi fa, nella stagione dei referendum, la società italiana ha mostrato. Avevamo detto allora che non solo l’acqua, ma anche l’informazione e il servizio pubblico erano da considerare “beni comuni”. E’ il momento di ricordarsene, ora che la legge può cambiare: anche per allontanare il sospetto che il coinvolgimento dei cittadini vada bene quando c’è da riempire le piazze per la protesta, ma sia giudicato d’intralcio quando “i grandi” devono prendere le decisioni vere.
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Giurisprudenza NATALE (FNSI): INFORMAZIONE E SERVIZIO PUBBLICO SONO ”BENI COMUNI”. RICORDIAMOCELO