Marocco, galera e maxi multe per lesa maestà

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Usare lo smartphone può essere pericoloso e puoi anche finire in galera, se caso mai decidi di utilizzarlo per diffondere notizie e fare giornalismo on the road. Succede in Marocco, dove ad inizio anno, esattamente il 27 gennaio 2016, è cominciato il processo a carico di sette giornalisti e attivisti per i diritti umani, alle prese con un capo di imputazione da far tremare: “attentato alla sicurezza dello Stato” che per un regime come quello di Rabat non fa certo dormire sonni tranquilli

Il Paese, del resto, è tra i fanalini di coda nelle classifiche stilate da “Reporters sans frontieres” sulla libertà di stampa nel mondo: 138° posto, preceduto dalla democratica Mauritania (55°), dalla liberale Tunisia (96°), da Kuwait (103°), Algeria (129°), addirittura Libia (131°).

Più in dettaglio, i componenti della banda dei 7 (attentatori) vengono accusati di aver preso parte ad un progetto – finanziato con fondi stranieri – finalizzato alla formazione d’un centinaio di “citizen journalists”, giornalisti di strada, appunto, ricorrendo alle nuove tecnologie, ed in particole, in questo caso, gli smartphone. Tra gli arrestati e ora sotto processo, con il rischio di una condanna pesantissima, superiore ai cinque anni di galera (almeno per cinque di loro) c’è anche un giornalista e docente universitario di storia, Maati Monjib, che ha già fatto due scioperi della fame per protestare contro le “infamanti” e farneticanti accuse che gli vengono rivolte, così come contro gli altri sei. Secondo gli atti della Corte di giustizia marocchina, citati in un report da Amnesty International, tale tipo di giornalismo “destabilizza la fiducia dei marocchini nelle istituzioni”. Per questo una ricetta che va sempre bene, sotto tutte le latitudini: galera.

Non si tratta, comunque, di un caso isolato. Già undici anni fa, nel 2005, Reporters sans frontieres denunciava metodi e censure made in Marocco: come nel caso di una firma nota nel Paese, Ali Lmrabet, “bandito dal praticare il giornalismo per 10 anni” per aver fatto “cenno”, in un articolo, al conflitto nel Sahara occidentale. Uno dei nervi scoperti, da sempre, del regime, insieme alle questioni del terrorismo islamista e a quelle “reali”, con una dinastia sempre intoccabile, ora impersonata da re Mohamed VI, il quale cinque anni fa, alle prese con proteste di piazza, promise una nuova costituzione e libertà di stampa: si è visto.

Emblematica, e drammatica, su questo versante la vicenda di un giornalista indipendente e redattore capo dell’edizione araba del sito web Lankome2, Ali Anouzla. Rischia 20 anni di carcere per aver “promosso, sostenuto e incitato” il terrorismo per via di un articolo ripreso a sua volta da un sito islamista del Maghreb: detenuto per oltre un mese, il suo sito è stato chiuso e ora sta per cominciare il processo. Un “recidivo”, Anouzla, visto che in un’intervista rilasciata al quotidiano tedesco Bild, non proprio di simpatie filo arabe, aveva toccato sempre quel tasto dolente, parlando di quell’innominabile zona del “Sahara occidentale occupata dal Marocco”, frase ripresa nientemeno che dal numero uno dell’Onu Ban Kii Moon: apriti cielo, anche allora l’accusa fu di aver minacciato “l’integrità nazionale”.

Secondo non pochi, comunque, la vera colpa del giornalista (e causa del diluvio di procedimenti giudiziari) sarebbe una, ben precisa e riconducibile alla già citata “lesa maestà”: una rappresaglia – secondo il sito frontierenews – per aver sollevato il coperchio sul cosiddetto “Daniel Scandal” in cui “il re marocchino è stato coinvolto per aver graziato come un gesto di amicizia con il suo omologo re Juan Carlos, uno stupratore di bambini seriale di origine spagnola, condannato a tre anni di carcere, di cui solo uno e mezzo è stato trascorso dietro le sbarre”.

Ricostruisce la drammatica situazione della libertà di stampa (e d’opinione) in Marocco l’International Business Times: “Oltre a Lmrabet sono tanti i giornalisti, anche molto noti, ridotti al silenzio dalla giustizia marocchina. Rachid Niny, Ali Anouzla, Abubakr Jamai, Ahmed Bechemsi, colpiti da cause legali, multe, reclusione, boicottaggio della pubblicità o della distribuzione, rifiuti di erogazione dei contributi pubblici per l’editoria. Si pensa che la situazione sia ben più grave, perchè molti giornalisti praticherebbero l’autocensura”. E ancora: “lo Stato starebbe cercando sempre più di soffocare le critiche tra giornalisti e noti intellettuali utilizzando il sistema giudiziario e imponendo multe eccezionali: molti giornalisti hanno lasciato il Paese mentre molti altri hanno abbandonato la professione, nonostante il mercato dei new-media in Marocco sia piuttosto fiorente”.

Non per la galera – che incredibilmente è stata al centro del dibattito, mesi fa, per una riforma della diffamazione mai varata da alcun governo, Renzi compreso – ma per le multe e soprattutto per le richieste civili di risarcimento danni (spesso e volentieri del tutto campate per aria, autentiche minacce per intimidire e ridurre al silenzio i giornalisti) in Italia stiamo messi ben peggio. E anche da noi esiste la ‘lesa maestà’, per via di numerose condanne civili non basate sulla verità e veridicità dei fatti, ma per il “tono”, sovente considerato “lesivo” della reputazione e dell’onorabilità di lorsignori. Ma almeno in Marocco c’è un Re…

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