La situazione della stampa in Cina è tutt’altro che rosea, ma in Italia non va poi così meglio. E’ questo il messaggio emerso durante il Convegno promosso da Ossigeno e dall’Università l’Orientale di Napoli, avente come tema proprio la comparazione tra minacce e abusi ai danni dei giornalisti italiani e cinesi. Le testimonianze raccolte dalla giornalista freelance Antonia Cimino, da anni residente in Cina, confermano la gravità dei toni assunti dalla repressione, come successo per Li Datong, direttore della rivista Freezing Point, che è stato costretto dalle autorità a cambiare impostazione al suo giornale, passando dalla trattazione di temi di giustizia sociale ad un triste modello politically correct. Un’altra esperienza degna di nota è quella dell’avvocato Zu Zhiqiang che sottolinea l’uso frequente della diffamazione contro i giornalisti troppo curiosi: uno strumento legale che si somma a metodi violenti come le minacce di tipo fisico e verbale.
Ma le testimonianze non sono tutte negative. Yang Jisheng, “decano” del giornalismo in Cina e protagonista nel periodo maoista, ritiene che la situazione sia cambiata in meglio con la nascita di una sfera pubblica, anche se fortemente influenzata dal Governo. La professoressa di storia della Cina all’Orientale, Paola Paderni, evidenzia quanto sia migliorata a livello quantitativo la stampa cinese nell’ultimo trentennio: si è passati dai 180 quotidiani del 1978 agli oltre 2000 dei giorni nostri.
Nel contesto cinese, il web, nonostante anche esso sia afflitto da pesanti limitazioni politiche, ha svolto un ruolo fondamentale abbattendo barriere culturali che sembravano insormontabili.
Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno, fa notare una lampante analogia tra i problemi della Cina e quelli dell’Italia. «Abbiamo fondato questo Osservatorio tre anni fa – dice Spampinato – allo scopo di tutelare i cronisti minacciati e dare il giusto credito alle notizie oscurate. Per combattere i reati contro la libertà di stampa è necessario dare una classificazione ai medesimi, non facendo l’errore di considerarli atti criminosi fini a loro stessi». Soprattutto al Sud, i problemi principali arrivano dalla criminalità organizzata, come testimoniato dalle recenti minacce avanzate dalla camorra al quotidiano Metropolis. In quel primo ottobre tre esponenti del clan Belviso tentarono di impedire la diffusione del giornale, nel quale era presente un articolo relativo al matrimonio e al pentimento del boss della famiglia, sia presso la redazione che nelle edicole. Un caso eclatante, quello di Metropolis, ma tutt’altro che unico. Basti pensare a quanto successo al cronista napoletano Arnaldo Capezzuto, che ricevette minacce di morte dal clan Giuliano mentre investigava sulla morte della 15enne Annalisa Durante, avvenuta proprio per colpa di giovani camorristi.
Se pensiamo che l’Italia è al terzo posto nella graduatoria dei Paesi europei per la repressione della libertà di stampa, capiamo come il passo verso una situazione simile a quella cinese possa essere meno breve di quello che crediamo. E – come evidenziato dagli esperti in aula – la mobilitazione a favore dell’informazione è la chiave per evitare che ciò accada.
Giuseppe Liucci