La condanna all’ergastolo dei fratelli Altan, uno stimato scrittore e l’altro giornalista ed economista, e del giornalista Nazli Ilicak è stata l’ennesima dimostrazione dell’autoritarismo che contraddistingue la politica interna della Turchia. E’ dal tentativo di golpe del luglio 2016 che si susseguono le “purghe” effettuate dal padre padrone del paese, Recep Tayip Erdogan, per presunti coinvolgimenti di esponenti della società civile con la sua nemesi, l’ayatollah Fethullah Gulen, ritenuto la mente dietro il colpo di stato. Oltre 50.000 persone sono attualmente detenute con l’accusa di propaganda terroristica e incitazione al disordine. I giornalisti sono tra le categorie più colpite dal nuovo rais, che controlla il paese con il pugno di ferro. Sarebbero 170 i reporter dietro le sbarre, secondo i rapporti di molte associazioni che tutelano i diritti umani. Gli ultimi provvedimenti giudiziari sono particolarmente gravi dal punto di vista simbolico, poiché colpiscono personalità molto rispettate dalla comunità internazionale. I fratelli Altan si sono battuti a lungo per il rispetto dei diritti in Turchia e sono tra i primi ad essere caduti vittime delle purghe. Ilicak è stato deputato prima di diventare un giornalista. Tutti e tre sono stati arrestati per aver mandato “messaggi subliminali” a favore di Gulen durante l’apparizione in uno show televisivo.
La Turchia, che è da anni nelle ultime posizioni di “World press Freedom”, è ormai tristemente nota come “ la più grande prigione al mondo per chi lavora nel settore dei media”. La sediziosità delle accuse con cui i giornalisti vengono condannati a gravissime pene postula l’assenza di un vero e proprio stato di diritto. Il governo giustifica i molteplici provvedimenti con la necessità di uno stato di emergenza perenne. Una motivazione spesso riscontrata in regimi invisi alle pratiche della democrazia. Tale, se non nelle parole almeno nei fatti, è quello di Erdogan, che fa della censura uno dei principali strumenti di repressione del dissenso. Del resto sotto la scure del presidente turco non sono finiti solo i giornalisti, ma anche Internet, che con i suoi molteplici pregi e difetti è oggigiorno teatro fondamentale per la manifestazione delle libertà di espressione e comunicazione. Facebook, Twitter e affini sono stati più volte bloccati da Erdogan in occasione di eventi importanti, al fine di frenare fughe di notizie e contenere eventuali agitazioni.
L’Europa e il mondo sono ben consapevoli dei problemi della Turchia, ma nella prassi è impossibile andare oltre dichiarazioni di principio e scaramucce senza sbocchi. Questo a causa del ruolo geopolitico cruciale del paese della Mezzaluna in questioni scottanti come l’immigrazione e il conflitto (per procura) siriano. Dall’estero i giornalisti turchi riusciti a scampare alle “purghe” continuano a denunciare le azioni del governo, ma l’impressione è che nel breve periodo nulla cambierà. E altri giornalisti andranno in carcere per aver adempiuto ai loro doveri professionali.
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