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LIBERAZIONE LA SUA AUTONOMIA (P. Sansonetti)

Nei giorni scorsi sono stati diffusi molti dati sui conti economici di Liberazione e sul calo delle vendite. I conti economici sono in rosso, per molte ragioni (e bisognerà metterci mano), e soprattutto per la minaccia di taglio dei fondi del finanziamento pubblico ai giornali.
Le vendite, al contrario di quello che è stato scritto in vari luoghi, attualmente sono in aumento. Non facciamo del trionfalismo su questo aumento di copie (che, a seconda di come lo si calcola, oscilla tra il 6 per cento e il 16 per cento) però non è il caso neppure di nasconderlo, anche perché ci permette di far parte di una piccolissima pattuglia di giornali che stanno aumentando le vendite, in un periodo di magra nel quale la stragrande maggioranza dei quotidiani subisce un fortissimo ridimensionamento della diffusione.
Nei giorni scorsi si è parlato di una riduzione delle copie di Liberazione del 30 per cento. E’ un dato che nasce dal paragone tra gli anni del triennio rosso (2001-2003: da Genova, al pacifismo dopo 1’11 settembre, il movimento no-global i girotondi ecc…) i quali portarono tutti i giornali di sinistra ad eccezionali picchi di vendita, e i risultati del 2007 (governo Prodi), che sono stati i più deprimenti. Diciamo un paragone un po’ forzato. Per chiarezza vi fornisco le cifre ufficiali relative al quadriennio 2005-2008, che è quello che conosco meglio per avere in questi quattro anni lavorato al giornale. Sono anni di costante calo delle vendite (comune a tutti gli altri giornali di sinistra, ma per noi più contenuto), che si impenna nel raffronto tra il 2006 e il 2007, cioè l’anno nel quale il Prc entra nel governo.
In quell’anno la perdita è forte (quasi del 18 per cento) e fa da «interfaccia», sebbene in dimensioni incomparabili, alla perdita di consensi del Prc e di tutta la sinistra (che dall’11 per cento circa del 2006 scende al 3 per cento, perdendo più o meno i tre quarti del proprio elettorato). Il calo prosegue ancora nei primi mesi del 2008, fino alla riforma grafica del giornale (che è di marzo) e poi si inverte. Il dato del 2008, finora, è nettamente superiore al dato del 2007 ma è ancora inferiore di 8-900 copie rispetto al 2006. Da marzo in poi però queste 900 copie vengono recuperate e le vendite tornano più o meno ai livelli del 2006.
Vi ho annoiato con queste cifre – e prometto che non lo farò più – solo per correggere una impressione forse sbagliata che era stata data da alcuni giornali nei giorni scorsi, e per segnalare un fatto che, almeno simbolicamente, a me sembra molto importante: l’inversione della tendenza al calo di copie. Credo che possiamo tutti rallegrarcene e ragionare su cosa fare per consolidarlo e incrementarlo. Detto ciò, e ribadita la mia convinzione che in questi mesi il giornale dovrà trovare la forza per rinnovarsi, rilanciarsi, rimettere in ordine i suoi conti economici, vorrei tornare a ribadire una piccola idea che a me sembra essenziale per organizzare una discussione seria sul futuro di Liberazione. E’ l’idea che – a me pare in modo chiarissimo – è stata esposta ieri su questo giornale da Lea Melandri. Un giornale che rinunci alla propria indipendenza intellettuale e politica, e alla propria autonomia – diciamola più semplice: alla propria libertà – smette di essere un giornale, perde la sua funzione, esce dal terreno sul quale si svolge la complicata e durissima battaglia per la libertà di stampa, di informazione, di «costruzione dell’opinione pubblica». E’ suo diritto farlo. Ma se lo fa – anche senza volerlo – indebolisce uno dei punti forti del pensiero di sinistra e radicale, e addirittura mette in discussione la funzione «critica» della sinistra. Naturalmente voi non dovete pensare che io non tenga in considerazione – e apprezzi – alcune delle considerazioni che ieri – su queste stesse pagine – ha illustrato, con un po’ di rabbia (ma anche con molto amore per il giornale) la mia amica Federica Pitoni. Le rimprovero solo una cosa: lei mette tra parentesi il valore della autonomia, lo considera quasi – credo – un fattore di arroganza, considera comunque un giornale di partito subalterno ai poteri e alle gerarchie, e ai meccanismi democratici di un partito. Io credo invece che non sia così. Che un partito, di sinistra debba avere la forza e il rigore per accettare di essere l’editore di un giornale che non controlla, che non è un suo organismo e tantomeno è un suo bollettino.
La storia dei giornali di partito in Italia è lunga e gloriosa. Inizia con l’Avanti! e poi con l’Unità, prima della guerra. E poi prosegue nel dopoguerra, e anche in questi ultimi vent’anni, sempre arricchendosi con testate nuove. In questi giorni stiamo combattendo con chi vorrebbe uccidere i giornali di partito, togliendo loro i finanziamenti pubblici. E ci affanniamo a spiegare e a dimostrare il ruolo grandissimo che in tutti questi anni questi giornali hanno avuto nel dibattito politico italiano, e nel formarsi delle idee, e nel rafforzare le dialettiche interne ai partiti, e il loro mutamento, e il confronto. Abbiamo spiegato che nel mondo dell’informazione italiana il posto dei giornali di partito è molto più grande di quello dei loro “cugini” stranieri. Come mai? Credo che non ci sia altra riposta che questa: perché, sin dal loro nascere, in tempi durissimi, i giornali hanno preteso la propria autonomia e l’hanno difesa coi denti. E i partiti di riferimento glielo hanno permesso. A partire dal vecchio Partito comunista che si inventò l’Unità e la lasciò vivere libera. Non penso che sia ragionevole, ora, tornare indietro, e disperdere quel patrimonio culturale.

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