Giggino Di Maio è sparito dal web. Sic transit gloria mundi, avrebbe detto il saggio. La fine politica, ingloriosa, dell’ex ministro degli Esteri è sintetizzata in maniera più che efficace dalla fine dei suoi frequentatissimi profili social. Su Facebook lo seguivano 2,4 milioni di cittadini, ammesso e non concesso che siano stati tutti profili genuini, che i bot, quelli falsi, i doppioni e i replicanti non vi abbiano avuto diritto di cittadinanza. Cosa che, considerata la propaganda grillina della prima ora è sicuramente poco probabile.
Di Maio, raccontano i giornali oggi, se ne starà nell’ombra e probabilmente aprirà una società di consulenza. Così come ha intenzione di fare l’ex sottosegretario grillino alla Difesa, Angelo Tofalo. Passare, nello spazio di un paio di legislature, due-tre governi, dallo sgolarsi contro i poteri forti a sognare di diventare lobbisti è un’altra delle epifanie di come il M5s sia stato colpito dalla più antica, potente e inesorabile legge storica e politica: quella dell’eterogenesi dei fini.
A chi resta, nell’agone politico, il ricordo di chi non c’è più sulla scena. Giuseppe Conte è tornato alle origini, almeno sui temi della lotta alla povertà col reddito di cittadinanza, e ha salvato il non-partito dal suo ineluttabile destino dopo cinque anni passati, pericolosissimamente, al governo. Anzi, ai governi: perché quelli contro i “voltagabbana” hanno governato prima con la Lega di Salvini, poi con il Pd di Bibbiano (Giggino dixit), infine con tutti insieme, appassionatamente, sotto l’egida di Mario Draghi.
Il senso di tutta l’epopea dei sanculotti digitali si racchiude nello svelarsi dell’idiosincrasia verso i giornali. Non ammettono che qualcuno li racconti perché è nei fatti che si svela il bluff della grande ipocrisia della purezza al potere. L’unica narrazione possibile deve essere agiografica e abbisogna di nemici a cui imputare tutti i mali del mondo. Altro che grande novità, roba vecchia come il cucco. Eppure, tranne Di Maio, sono ancora lì. Così è, se vi pare.
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