Appena è comparso sul sito della Columbia University, il rapporto sulla “Ricostruzione del Giornalismo Americano” – che propone un sostegno pubblico alla carta stampata, messa in ginocchio dalla crisi economica -, ha suscitato una valanga di reazioni.
Scontato il “no” dei conservatori, già furiosi per l’ampliamento del ruolo dello Stato nella gestione della crisi economica. I progressisti si sono spaccati: pieno sostegno alle tesi del “manifesto” della Columbia da parte di Freepress – un’organizzazione della sinistra “liberal” con mezzo milione di iscritti che si è assegnato il ruolo di “guardiano” della libertà di stampa – mentre la sinistra libertaria cresciuta nell’era digitale vede il problema in altri termini. Considera la carta stampata il passato, sostiene che “bisogna salvare il giornalismo, non i giornali”, come ama ripetere il radicale Jeff Jarvis, guru del nuovo «ecosistema» dell’informazione, studioso degli «aggregatori» che cercano di trasformare un cespuglio di «blog» in un prodotto giornalistico con una struttura comparabile con quelle dei «media» tradizionali.
Anche Dan Gillmor, un «columnist» della sinistra americana che ha raccontato per vent’anni sui giornali l’epopea della Silicon Valley e ora insegna giornalismo alla Cronkite School dell’Arizona State University, prende le distanze: «Gli unici che riescono a trarre vantaggi dal rapporto col governo senza pagare dazio sono le grandi banche e le società che gestiscono appalti militari. Gli altri vengono schiacciati. Toccherebbe anche a noi». Anche David Carr, sul New York Times, si dice sconcertato, vista l’impopolarità di un ricorso ai contribuenti.
Più pacate le reazioni del Nieman Lab, il laboratorio giornalistico di Harvard che ragiona sui pro e contro della proposta, mentre anche il Poynter Institute formula alcune, misurate critiche.
Ma intanto il tema dei sussidi pubblici alla stampa – insieme a quelli dei tagli che renderanno permanente il «dimagrimento» delle redazioni, del maggior coinvolgimento degli atenei e della trasformazione delle società editrici in «non profit» sostenute da filantropi, come già avviene per musei, biblioteche, teatri e altre istituzioni culturali – è stato messo ufficialmente sul tavolo.
Vincenza Petta
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