Nei giorni scorsi il Governatore della Regione Campania ha citato per diffamazione la Repubblica e la giornalista Conchita Sannino per alcuni articoli apparsi sull’edizione campana del quotidiano in relazione alla gestione della pandemia. Si è alzata un’immediata levata di scudi da parte della Federazione Nazionale della Stampa e delle associazioni che ruotano intorno al sindacato.
Nei giorni scorsi il direttore del quotidiano “Il Riformista”, Piero Sansonetti, ha lamentato di aver ricevuto nel breve periodo di attività di edizione del quotidiano oltre 20 denunce penali per diffamazione da parte di magistrati. L’unico riscontro da parte dei colleghi è stata la nota con cui il Presidente dell’Ordine ha ritenute ridicole le doglianze di Sansonetti, in quanto un buon giornalista si difende nei processi e non dai processi. E sostanzialmente dicendo che se uno ha paura di una causa per diffamazione, beh, allora proprio tanto bravo come giornalista non è.
Perché questi due pesi e queste due misure? Semplice. In primis Sansonetti è da sempre un giornalista fuori dal coro, accusato di essere passato dalla sinistra più integralista ad uno strenuo paladino del berlusconismo. E già per questo sanzionabile, se la pena non è penale, allora che sia morale. E quindi lui e i suoi giornalisti sono figli di un Dio minore, facilmente immolabili sull’altare del politicamente conforme.
La seconda ragione è che chi ha citato Repubblica è un politico e non un politico qualunque, ma Vincenzo De Luca, noto alle dirette facebook per le intemperanze verbali. Mentre chi ha citato Sansonetti e i suoi giornali sono dei pubblici ministeri noti alle cronache per il carattere più mediatico che penale delle indagini effettuate. Questi sono i fatti, e appaiono oggettivamente questi. Ma da questi fatti nasce una domanda. Per quale ragione nessuno, ma dico nessuno, abbia posto il tema del carcere per le opinioni dei giornalisti, vera infamia per una democrazia?