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LE ALTERNATIVE AI TAGLI ALL’EDITORIA (Da “il Manifesto”)

In questo nostro povero paese è più facile trovare 20 miliardi di euro da regalare alle banche che impegnare 200 milioni di euro per salvaguardare il diritto dei cittadini a un’informazione libera, come recita l’art. 21 della Costituzione. In questo nostro povero paese, lo Stato è pronto a pagare senza nemmeno nazionalizzare. E lascia in sella ai maggiori gruppi bancari italiani quei dirigenti e manager che hanno messo a rischio i risparmi dei cittadini italiani, secondando l’ondata speculativa dell’ultimo decennio e riempiendo i portafogli bancari di titoli spazzatura. La disfatta del pluralismoL’onorevole Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria – intervenendo martedì 7 nella Commissione Affari costituzionali al Senato – ha motivato con «la crisi finanziaria internazionale» i nuovi tagli, pari a 43 milioni di euro, apportati dalla Legge finanziaria 2009 al Fondo per l’editoria. Questi si vanno ad aggiungere al colpo di scure di 83 milioni del Decreto Tremonti (del 25 giugno 2008) e portano il Fondo dai 387 milioni della precedente Legge finanziaria, a 261 milioni: un taglio secco del 32,5% in quattro mesi, come in nessun altro settore.Questa scelta acquista un peso ancora maggiore, se si tiene conto del fatto che nel 2006 i contributi editoria (diretti e indiretti) hanno impegnato 589 milioni di euro (quelli del 2007 devono ancora essere pagati, ma il sottosegretario assicura che verrà fatto). Credo che ci siano serie ragioni per cui l’onorevole Bonaiuti si debba sentire profondamente umiliato da questo trattamento (non riservato a nessun altro ministro o sottosegretario con delega), a meno che non condivida una scelta, che – facendo tabula rasa dei contributi diretti – punta ad assestare un colpo alla democrazia dell’informazione. In questo caso, risulterebbe schierato (e non voglio crederlo) dalla parte opposta, rispetto a quella su cui è collocato dalla sua funzione istituzionale.Per preparare questa iniqua ‘macelleria’ del pluralismo, il Decreto Tremonti del 25 giugno (oggi già convertito in legge) ha fatto una «mossa» preliminare: cancellare il «diritto soggettivo» ai contributi per le testate cooperative, non profit e di partito, che ne usufruiscono da oltre vent’anni, non solo per la loro natura sociale, ma per la discriminazione che congiuntamente subiscono sul mercato della pubblicità (nessuna di queste testate raggiunge il 30% di entrate pubblicitarie, mentre la media del settore è al 49%). Con questa misura, il contributo pubblico non era più un diritto certo e quantificabile, ma veniva condizionato «alle risorse stanziate in bilancio».Questa misura ha completamente dissestato 26 testate cooperative, di proprietà dei giornalisti e dei poligrafici che ci lavorano (dal manifesto a Carta al Corriere mercantile) , e messo a rischio la maggioranza dei quotidiani di partito (da Liberazione al Secolo, dall’Unità alla Padania): il pluralismo non ha – e non può avere – «colore». L’incertezza sull’ammontare dei contributi impedisce loro di iscriverli in bilancio; e, prima ancora, di negoziarne l’anticipazione (dal momento che i contributi vengono erogati un anno dopo) con le banche.Questa crisi devastante e da noi più volte annunciata, ha fatto irruzione nella audizione nella Commissione Affari costituzionali al Senato, attraverso gli interventi non solo di autorevoli esponenti dell’opposizione (dal vice-presidente del gruppo Pd Zanda a Vincenzo Vita), ma anche dei parlamentari di maggioranza Butti (Pdl-An) e Bodega (lega Nord), fino a far dichiarare a Bonaiuti che bisognerebbe fissare in legge un «minimo garantito» per i contributi diretti, per permettere ai giornali di trattare con le banche. Ora, se il governo ha proposte per evitare la chiusura di testate in questi mesi, anche se si tratta di palliativi, non le annunci, ma le definisca in uno dei tanti decreti legge, che sta varando.Per parte nostra, resta la convinzione che l’unica soluzione possibile è il ripristino del «diritto soggettivo» ai contributi, accompagnato da nuove norme assai rigorose, che superino tutte le posizioni di abuso e salvaguardino i giornali veri rispetto a quelli fantasma, obblighino tutte le cooperative a divenire cooperative di giornalisti, e introducano regole di maggior rigore nello stanziamento. Tagliare pro-quota i sostegni di tutti i giornali finanziati come avverrebbe in caso di decadenza del «diritto soggettivo», è una cattiva regola, un criterio proprio di un’autorità di governo che non vuole fare pulizia, e fa parti uguali tra diseguali: la forma peggiore di ingiustizia.Punto, a capo Allora, proviamo a voltare pagina. È in discussione un nuovo Regolamento che vorrebbe fissare con Decreto presidenziale nuovi criteri di erogazione dei contributi. Si tratta di una norma incostituzionale – come ha argomentato il Parere reso a Mediacoop dal professor Pace, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani – ed è una norma che mette nelle mani del principe non solo quanto dare ai giornali (in Finanziaria), ma anche come dare e a chi dare. Un bel pasticcio. E’ un vulnus sul terreno della democrazia. Un governo (l’attuale o uno futuro) avrebbe la facoltà piena di decidere la sorte di decine di testate. Nel Regolamento, proposto dal sottosegretario Bonaiuti e dal Capo del dipartimento editoria, professor Masi, sui criteri di erogazione si presentano tante proposte di «maggior rigore» (avanzate da molti anni da Mediacoop e dal manifesto), unite a diverse mediazioni e furbizie. Si vuole passare dal precedente criterio di «tiratura» a quello di «distribuzione». Bene. Si escludono dal computo del «venduto» le copie vendute «a blocco» a prezzi irrisori. Bene. Si vuole negoziare con Poste italiane Spa il pagamento delle spedizioni postali secondo la tariffa concessa al miglior cliente privato. Bene: si potrebbe così ridurre di oltre il 40% l’esborso dello Stato (oggi 305 milioni) per sostenere gli editori – anche i gruppi quotati in borsa -, i partiti e il volontariato. Si chiede che tutte le cooperative editoriali (in cui la proprietà resta separata dal lavoro) diventino vere «cooperative di giornalisti», gestite dai poligrafici e giornalisti che ci lavorano. Bene. Ma non si faccia nessun passo indietro su queste norme. E, soprattutto, non venga abbassato in modo eccessivo (come il Regolamento fa) il rapporto tra copie distribuite e copie vendute – che va in favore dei giornali di poche pagine, a cui conviene alzare le tirature nella speranza di prendere più contributi dallo Stato. Non si tolga un tetto di entrate pubblicitarie (finora il 30%), per accedere ai contributi. Si definisca, inoltre, un nuovo tetto, più «serio», relativo all’occupazione per i quotidiani ammessi ai contributi (è incredibile e ridicolo che un quotidiano con soli 5 dipendenti – come dice il Regolamento – possa ricevere due milioni di aiuti di Stato). Noi consideriamo incostituzionale il percorso che dal Decreto Tremonti ha portato al Regolamento, e ci sforzeremo di argomentarlo in ogni sede. Mentre crediamo che se le proposte avanzate nella bozza in discussione fossero state portate in Parlamento – senza cancellare il diritto soggettivo -, si sarebbe potuta costruire, rendendole più rigorose e inequivoche, il percorso di una riforma condivisa, capace anche di promuovere significativi risparmi. Ma finora così non è. Vogliamo, però, cercare di dire non solo quanto non si deve fare, ma ciò che ragionevolmente può essere fatto.Con una essenziale premessa: occorre togliersi dalla testa ogni misura retroattiva, che – intervenendo sui criteri di erogazione del 2009 – tagli i contributi per il 2008, un anno di bilancio già consumato per le imprese destinatarie. È un modo di procedere iniquo e devastante, anch’esso a rischio di incostituzionalità.La posta in palio è il pluralismo. È intollerabile che in un paese in cui le risorse pubblicitarie sono concentrate in modo anomalo nelle Tv (e quella di proprietà del presidente del Consiglio la fa da padrona), vengano chiuse decine di testate, perché il governo decide di affondare la scure in modo anomalo (tagli del 32,7% su un’unica voce di bilancio) verso i giornali cooperativi, non profit e di idee, verso gli unici editori puri che sopravvivono in Italia. Serva il monito lanciato dal Presidente della Repubblica: e la sua indicazione di far leva prioritariamente su una razionalizzazione della spesa, senza cancellare voci, ed avendo una cura particolare per quelle testate che danno possibilità di espressione a una grande area sociale oggi non rappresentata in Parlamento.Se le condizioni del paese sono terribili, teniamone conto. Per ripristinare il «diritto soggettivo» per le testate cooperative, non profit e di partito c’è anche una via più semplice della fiscalità generale: una tassa di scopo di «solidarietà e riequilibrio» nel sistema della Comunicazione, che alimenti un Fondo per il pluralismo, seguendo l’idea avanzata da Mediacoop nella sua recente Assemblea nazionale, che il manifesto fa propria.Le alternative possibili1. Le edicole si sono riempite in questi anni di chincaglieria (soldatini, automobiline, magliette, occhiali, profumi, giochi per bambini e tanto altro). Questi prodotti arrivano spesso in edicola attraverso un trucco, risultano «allegati» a minuscoli fogli di carta, registrati come periodici. Intasano gli spazi di vendita, sono la disperazione dei giornalai; ma godono del beneficio dell’Iva al 4% concessa ai prodotti editoriali (mentre gli stessi oggetti hanno un’Iva al 20%, se venduti nei negozi). È una vergogna. E si tratta di un fatturato complessivo da noi stimato per non meno di 500 milioni di euro. Allora, portiamo al 20% l’Iva dei prodotti non editoriali (che non siano, cioè, libri, riviste e Cd), che vanno in edicola. E si potrà devolvere a questo fondo un importo non inferiore a 64 milioni di euro.2. Le Tv analogiche nazionali pagano un misero 1% del loro fatturato per la concessione statale dei 7 canali di trasmissione. Su questo modesto canone poggia un fatturato imponente di 5,3 miliardi di euro (fonte: Sic, elaborato dal Roc Agcom per il 2007). Insieme, queste drenano circa il 54% delle risorse pubblicitarie, in assoluta controtendenza rispetto agli andamenti europei e mondiali: infatti, in Usa, Germania, Francia e Inghilterra la pubblicità televisiva non supera il 33%. Aumentiamo dell’1% la tassa di concessione; e ricaveremo altri 53,28 milioni di euro per il Fondo per il pluralismo. È una misura limitata e ragionevole, se si tiene conto che le risorse pubblicitarie concentrate dalle Tv sono pari a 3,638 miliardi di euro, mentre tutti i quotidiani italiani insieme non ne raccolgono 1,8.Queste sono le nostre proposte. Ma si potrebbe anche seguire altre strade, come escludere dai benefici dei contributi postali i gruppi editoriali a stampa quotati in borsa, e se ne ricaverebbero 36 milioni di euro. O definire un a tassa di solidarietà dell’1% sulla pubblicità televisiva, portando al fondo 36,38 milioni di euro. Si tratta di elaborazioni su dati forniti dal Roc.Una scelta di questo genere è oggi obbligata, e matura. Per impedire la chiusura di decine di testate; ed evitare lo scenario terribile di una stampa che perde voci ed idee e si omologa, come le Tv.Ne discuta il Parlamento. Ne prenda atto il sottosegretario Bonaiuti, che sfidava la Commissione Affari costituzionali del Senato a trovare le risorse per ripristinare il «diritto soggettivo» in Finanziaria. Una seria innovazione, infatti, può partire soltanto da un vero risanamento della legislazione dei contributi diretti (che produca significativi risparmi) e dal contestuale ripristino del loro carattere di «diritto soggettivo». E il Fondo per il pluralismo può rappresentare la leva decisiva di questa innovazione. Se cadranno in questi mesi, infatti, alcune testate storiche e un gran numero di vere cooperative di giornalisti e di giornali di partito, non ci sarà nessun Regolamento da varare, né riforma da fare. Si chiuderà una pagina del pluralismo dell’informazione italiana e della democrazia italiana. E non si potrà che ridurre a zero il Fondo per l’editoria.

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