Editoria

L’appello della File: “Ecco chi si colpisce davvero tagliando i fondi all’editoria”

Martedì 16 ottobre la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati discuterà una risoluzione di maggioranza inserita nella nota di accompagnamento al Def in cui, tra le altre cose, si impegna il Governo ad “un graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo, quota del Dipartimento informazione editoria”.
Si tratta di un argomento che non rientra in quelli contenuti nel contratto di Governo tra Lega e M5S. E si tratta di una minaccia grave alla libera informazione locale che va ad esclusivo vantaggio dei grandi gruppi editoriali, che non beneficiano di alcun contributo diretto da parte dello Stato ma solo di alcuni sgravi (sulle spese telefoniche e di collegamento ad internet, sulle spese postali e sull’Iva) che non rientrano nel Fondo per il pluralismo che si vuole azzerare.
Occorre precisare alcune cose che pochi conoscono.
La prima: il fondo per il pluralismo dell’informazione oggi è un Fondo unico che ogni anno deve essere ripartito in parti uguali tra Ministero industria e sviluppo economico (per i contributi a radio e tv locali) e Dipartimento editoria della Presidenza del Consiglio (per la carta stampata). La mozione chiede l’azzeramento solo della seconda parte, lasciando in vita i contributi a radio e tv locali, gestite (a differenza della carta stampata) da imprenditori privati e non da cooperative ed enti morali no profit.
La seconda è che nel 2017 il fondo destinato alla carta stampata ammontava a circa 50 milioni di euro, ed è in costante diminuzione a causa della progressiva chiusura di testate. Meno di un euro procapite all’anno. Un’inezia nel bilancio dello Stato.
La terza: a beneficiare di questo fondo sono solo testate edite da cooperative di giornalisti o da fondazioni o enti morali, comunque senza scopo di lucro e con l’obbligo in statuto di non dividere eventuali utili.
La quarta: nessun grande giornale riceve questi contributi, né Repubblica, né il Corriere della Sera né la Stampa, il Messaggero, il Mattino eccetera. Anzi, i grandi gruppi editoriali e la Fieg sono sempre stati contrari a questi contributi che alimentano centinaia di piccole testate i cui lettori e il cui bacino di pubblicità fanno gola proprio ai grandi gruppi, sempre più in crisi di copie e di inserzionisti. Gli unici a brindare per un eventuale azzeramento del fondo per l’editoria sarebbero proprio loro: i grandi gruppi editoriali.
La quinta: a beneficiare di questo contributo sono solo cinque quotidiani a tiratura nazionale (in quanto editi da cooperative o da fondazioni o da enti morali): Libero, Avvenire, Italia Oggi, il Manifesto, il Foglio. Ci sono poi decine e decine di quotidiani provinciali o regionali come il Roma-Giornale di Napoli, il Corriere di Romagna, la Voce di Rovigo, Cronache Qui Torino, Latina Oggi, Ciociaria Oggi, Il Quotidiano del Sud, il Crotonese, Taranto Buonasera, il Sannio eccetera eccetera.
Quotidiani che garantiscono una capillare informazione di prossimità, vicina ai territori e ai
cittadini (la maggior parte di questi quotidiani sono associati alla File, Federazione italiana liberi editori). Infine, beneficiano del contributo pubblico oltre un centinaio tra settimanali e mensili di stampo cattolico, editi da diocesi e parrocchie (la maggior parte dei quali associati alla Fisc, Federazione italiana stampa cattolica).
La sesta: questi piccoli giornali hanno un’altissima intensità di occupati, giornalisti, poligrafici e tecnici. Organismi di categoria hanno calcolato che tra i dipendenti diretti e quelli dell’indotto (edicole, distribuzione, tipografia, collaboratori, agenzie di service eccetera) siano in gioco circa diecimila posti di lavoro. Come è noto, le piccole aziende editrici non possono stare da sole sul mercato, perché il mercato dell’informazione, e in particolare della pubblicità, non tollera i soggetti di dimensioni minori. La sopravvivenza di questi giornali dipende, quindi, dal sostegno pubblico, ossia dall’intervento pubblico che riequilibra il deficit di mercato. Del resto questo è vero per tutto il settore della cultura, dell’arte e dello sport, dove i soli “tickets” non permettono la sopravvivenza di teatri, balletti, musei, biblioteche eccetera. E questo accade in tutto il mondo, non solo in Italia,
tant’è vero che tutti gli Stati occidentali hanno forme di finanziamento pubblico alla cultura e all’editoria.
La settima: l’azzeramento dei fondi all’editoria porterebbe alla chiusura di queste centinaia di testate e comporterebbe nell’immediato, come primo risultato, un deficit di libera informazione in decine e decine di province italiane. Inoltre, comporterebbe la perdita di migliaia di posti di lavoro, con un notevole costo a carico dello Stato prima come ammortizzatori sociali e poi come eventuale reddito di cittadinanza. È plausibile pensare che il costo per lo Stato sarà molto superiore all’entità dei contributi finora erogati, senza contare poi il costo sociale e culturale di un simile terremoto nell’editoria italiana.
Precisati questi incontrovertibili dati di fatto, ogni forza politica si assuma di fronte al Paese la responsabilità delle proprie scelte, dei propri voti in Parlamento e delle decisioni che verranno prese, consapevole delle conseguenze che queste scelte comporteranno in termini di libertà di informazione e di posti di lavoro persi.
Salvatore Monaco.

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