E così Telecom se la comprano gli spagnoli. Va via un altro pezzo di questo che fu un bel Paese, in decrescita, felice chi la predica, infelice chi la subisce. Basta con il made in Italy, il futuro sarà buy Italy, lo spread ci ha reso terra di conquista, prezzi stracciati per le imprese italiane che furono grandi. Ma la storia della privatizzazione della Telecom urla vendetta, nessuno ne parla, silenzio sul disastro del capitalismo italiano. Correva l’anno 1995, l’Italia, guarda caso, era in crisi, l’Europa incombeva e si decise di privatizzare il settore delle telecomunicazioni. Privatizzazione formale, fusione della Stet e Telecom in un’unica società per azioni, privatizzazione sostanziale, cessione delle azioni dell’allora Ministero del Tesoro ai privati. Strumenti giuridici raffinatissimi, golden share, Autorità di vigilanza, l’Italia si proiettava ad entrare nel futuro, il gioiello pubblico in mano ai privati avrebbe recuperato efficienza, viva il mercato. E lo fa il Governo Prodi, le liberalizzazioni non sono solo di destra, colloca sul mercato le azioni e la quota di maggioranza, molto relativa, poco più del sei per cento, va alla famiglia simbolo del capitalismo all’italiana e gli Agnelli diventano, dopo lo Stato, gli azionisti di riferimento. Poi arriva il nuovo che avanza, la famiglia Colaninno che lancia un’offerta pubblica di acquisto e scambio utilizzando l’Olivetti, l’emblema della tecnologia italiana di una volta, trasformata prima da De Benedetti in una società finanziaria e poi ricicciata dal padre di quel Matteo che dal suo pulpito in Parlamento ci dà lezioni di finanza etica, in strumento di scambio. Poco conta che il pargolo è figlio di chi per scalare Telecom ha investito circa 31 miliardi di euro con i soldi delle banche. Si, perché le operazioni su Telecom, da allora ad oggi, sono sempre state basate sul sistema, vietato, ma la legge non è uguale per tutti, del leverage by out, i soldi per comprare li prendo dai flussi di cassa attesi della società obiettivo. Il sogno della privatizzazione si è realizzato, D’Alema gongola, le banche tremano, Colannino entra da protagonista nel mondo dell’altissima finanza e Telecom, che fa utili su utili, ha un solo obiettivo, rimborsare agli investitori i dividendi da girare alle banche; banda larga, sviluppo, roba da paesi in via di sviluppo, quisquilie, pinzillacchere. Il principale problema di Telecom diventa bloccare ogni iniziativa rivolta a ridurre i costi di accesso e di interconnessione, mazziare gli utenti per soddisfare i soci, chi dovrebbe controllare è l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che, in realtà, nasce come uno spin-off della società nazionale di telecomunicazioni. E un’altra volta, fibra, banda larga, innovazione, nulla di nulla, qualche chiacchiera durante qualche road show e basta così. In realtà uno che prova a farla la banda larga ci sta, si chiama Scaglia, l’idea è quella di riutilizzare i cavi in fibra posati dalla Sip, quando era pubblica, quando era brutta, quando era una delle società di telecomunicazioni più avanzate al mondo. Ma poi arriva qualche Procura, il gioco si ferma, accuse infamanti e ritorna la Telecom. E tocca a Tronchetti Provera, il gioco è sempre lo stesso, compra, anzi lui compra e le banche pagano salatissimo il conto a Colannino, il doppio del valore, le azioni della società che controlla Telecom. L’enorme plusvalenza del padre del grande moralizzatore viene realizzata fuori dall’Italia, giusto per dire. Tronchetti Provera, grande capitano d’industria, diventa proprietario del gruppo telefonico ed inizia il balletto di nomine. Il problema è che ogni soldo, ogni euro, che la società realizza deve rigorosamente essere destinato alle banche che hanno finanziato l’affare, quello dell’acquirente che acquista senza soldi. Risultato finale, oggi, la banda larga non c’è, è uno slogan da usare quando devono parlare dell’agenzia per l’Italia digitale, che non c’è, o quando Telecom deve minacciare che se gli tagliano le tariffe di accesso non farà più gli investimenti in nuove tecnologie, che, comunque, non fa. Il gioco passa ora agli spagnoli, ricche sopravvenienze per pochi, una rete telefonica che fa schifo per gli italiani e l’ennesimo gioiello del Bel Paese distrutto dai salotti buoni della finanza italiana e consegnato con grandi sorrisi agli stranieri.
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