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LA VICENDA DI SERGEI SOKOLOV: LA RUSSIA CONTINUA A CALPESTARE LA LIBERTÀ DI STAMPA

Sembra finita nel nulla la vicenda di Sergei Sokolov, vicedirettore della Novaya Gazeta, la testata moscovita d’opposizione per la quale lavorava anche Anna Politkovskaja: a metà giugno il giornalista era stato minacciato di morte nientemeno che dal capo del Comitato investigativo russo, Alexander Bastrykin, e costretto a espatriare per un paio di giorni per evitare di fare la fine proprio della giornalista, uccisa brutalmente nel 2006 per le sue inchieste scomode.
In una conferenza stampa sabato16 giugno, lo stesso Bastrykin ha ammesso di aver avuto un comportamento «impulsivo» con Sokolov e gli ha offerto le scuse via telefono. E il direttore della testata Dmitri Muratov ha chiuso le polemiche senza troppi ripensamenti: «Per me l’ordine del giorno è esaurito. È stata raggiunta la riconciliazione», ha fatto sapere dopo che il caso ha riempito le cronache dei media nazionali e internazionali. Il duello Bastrykin-Sokolov ha dell’esemplare, sia per com’è nato e, soprattutto, sia per come si è chiuso.

L’incipit è stato degno dei migliori film d’azione, con il giornalista investigativo che dopo aver denunciato la connivenza del capo degli inquirenti con una banda di assassini di provincia è stato portato in un bosco e minacciato di morte. Nell’intermezzo la storia è stata raccontata sulla Novaya Gazeta e discussa al Cremlino, prima che nel gran finale arrivassero le scuse e la classica pietra sopra.

In Russia le frizioni tra potere e media si risolvono generalmente con la vittoria del primo (sia che si tratti dei palazzi moscoviti sia di quelli di provincia) e questa volta l’aver costretto un pezzo grosso a fare mezzo passo indietro è comunque un evento degno di nota. La Russia è secondo Reporter without borders uno dei Paesi al mondo dove la libertà di stampa è più minacciata: nel 2011 era alla 142esima posizione su 179 Stati. Nel 2012, per quel riguarda invece l’informazione via internet, è stata messa sotto stretta sorveglianza, insieme con democrazie più navigate come l’Australia e l’India.
Vladimir Putin non è considerato insomma uno dei nemici del web al pari di suoi colleghi postsovietici come Alexander Lukashenko in Bielorussia, Islam Karimov in Uzbekistan e Gurbanguly Berdimukhamedov in Turkmenistan, anche perché sino a ora la Rete è rimasta uno spazio dove l’opposizione è stata libera di sparare contro il regime tutte le cannonate che ha voluto.

Il controllo mediatico è influente per ciò che concerne il settore televisivo (i canali statali sono infatti già controllati dall’alto e molti di quelli privati in mano a oligarchi filogovernativi), relativo sulla carta stampata, che anche in Russia come altrove perde sempre più lettori e non è certo capace di spostare voti (la Novaya Gazeta tira 250 mila copie in un Paese di 140 milioni di abitanti, non certo un bolide da guerra per contrastare la macchina propagandistica statale).
Mentre è appunto quasi assente su internet: non a caso il blogger Alexei Navalny è assurto a figura centrale durante le manifestazioni che hanno accompagnato la rielezione di Putin alla presidenza.

La blogosfera è molto attiva politicamente, nuovi siti indipendenti (uno su tutti Dozhd Tv, sempre in diretta dalle piazze) e classici social network come Twitter e Facebook, e la sua versione russa Vkontakte, sono ormai i presidi della moderna informazione di massa che hanno costituito il fronte antiputiniano negli ultimi mesi.

Il Cremlino può ancora sfruttare il vantaggio dell’ampia forbice che divide la stragrande maggioranza dell’elettorato classico che si forma sulla base di tivù e carta stampata, dalla minoranza che utilizza la Rete.
La questione è di vitale importanza per la sopravvivenza stessa del sistema, che per non sparire con i suoi elettori dovrà riformare se stesso andando molto probabilmente incontro anche alle istanze in arrivo dal web. Evitando reazioni ‘impulsive’ alla Bastrykin.

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