Perché ha (ancora) un senso fare un giornale, magari organizzandosi in cooperativa e quindi senza avere le spalle coperte da nessun grande editore, al tempo del coronavirus? Perché ostinarsi a lavorare, quasi come gli ultimi dei giapponesi mentre tutt’intorno non è altro che un solo canto: la carta è finita, i giornali, già afflitti dalle patologie pregresse dei costi e delle copie in calo, non sopravviveranno alla pandemia.
Eppure c’è (e sono tanti) coloro i quali continuano a farlo. In direzione ostinata e contraria, si sarebbe detto un tempo.
In un lungo post apparso sul sito di Professione Reporter, Matteo Bartocci – giornalista parlamentare e direttore editoriale nonché responsabile delle edizioni digitali de Il Manifesto – ha raccontato uno spaccato di vita lavorativa durante la grande paura. Le redazioni vacanti, persino le macchinette del caffé lasciate (una volta tanto) sole a loro stesse. Le riunioni ora si fanno con WhatsApp, con internet. Il suono dei messaggi si alterna sul video, spiega Bartocci. Per fare il giornale, perché è ai giornali che viene demandato il ruolo, fondamentale in quel delicatissimo periodo, di informare il pubblico. Di vagliare le notizie vere da quelle false, di consegnare un prodotto fisico che resista e che racconti la realtà nel virtuale, sempre più pervasivo. Un gesto, quello di andare in edicola e pagare per leggere buona informazione, che è un atto solidale ma, soprattutto, garantisce la sopravvivenza a migliaia di lavoratori. Bartocci scrive: “Non dimentichiamo che con quel semplice euro e mezzo in edicola vivono il giornalaio, il distributore locale e nazionale, il trasportatore, il tipografo, il giornalista, il poligrafico, l’editore. Acquistare un quotidiano è un gesto apparentemente banale, ma dà vita a decine di migliaia di persone. E’ una piccola scintilla capace di accendere una grande luce. Noi la teniamo accesa. E voi?”.
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