Quindi come fare per rendere più profittevoli gli spazi pubblicitari dei giornali digitali?
Un metodo c’è. Si tratta di una sorta di pubblicità intelligente. Ovvero di un annuncio proposto “su misura” dell’utente. O meglio uno spot “cucito” sul suo profilo digitale. Negli Usa questo tipo di pubblicità ha già raggiunto dei livelli considerevoli: il 30%. In Italia siamo agli albori: al 3%.
Ma, al di là dell’idea di personalizzare la pubblicità, come si concretizza questo meccanismo? Il metodo sembra abbastanza “semplice” e lineare. I siti di informazione bandiscono una sorta di asta digitale in tempo reale. In inglese Real time bidding (Rtb). Si tratta di una piattaforma automatica. La quale segnala agli inserzionisti il profilo del consumatore che sta visualizzando una determinata pagina web. Verranno quindi indicati età, sesso, interessi, abitudini. In altre parole l’identità virtuale dell’utente. Il tutto in millesimi di secondo. È come se il sito di informazione dicesse (grazie alla Rtb): Noi ti offriamo l’attenzione di questo utente che ha questi gusti e non di un pubblico generalizzato e poco “appetibile”. Quindi voi inserzionisti quanto mi date per questo spazio? Ed ecco che, a questo punto arriva l’asta. E chi offre di più si aggiudica “l’attenzione” dell’utente.
Ma quando si parla di profilazione degli utenti non possiamo fare a meno di parlare dei “depositari” dei Big Data. Ovvero della mole infinita di dati sensibili che circolano in rete. In questo campo la fanno da padrone i colossi del web. Parliamo di Google, Facebook e Twitter. E sempre di conseguenza nasce (o meglio si rinnova) il problema della privacy con tutti i suoi interrogativi. È giusto appropriarsi, vendere e poi utilizzare i dati personali degli internauti? La Costituzione italiana e le Autorità competenti sono contrarie all’uso commerciale dei dati sensibili. Ma nei fatti questo già accade. I dati vengono già raccolti. Da anni. Quando mandiamo una e-mail, telefoniamo, scriviamo su Facebook, cerchiamo su Google siamo continuamente monitorati. E ci sono floride società adibite e specializzate proprio nell’elaborazione di queste informazioni. C’è un saggio intitolato “I know who you are and i saw what you did: social networks and the death of privacy”, scritto dalla giurista americana Lori Andrews. Il libro parla di una vera e propria industria dei Big Data che noi, ogni giorno. contribuiamo ad ingrandire. Ignorando gli scomodi interrogativi sulla riservatezza.
Tuttavia, indipendentemente dai problemi etici e giuridici della privacy, dal punto di vista strettamente editoriale la pubblicità intelligente sembra una risorsa. Negli Usa, in Inghilterra e in Francia il modello sembra funzionare. E in base a ciò potrebbero anche cambiare le strutture editoriali dei giornali online. Ma spieghiamoci meglio illustrando come esempio il modello francese di Place Media. Si tratta di una unione di 120 siti di informazione specializzati che totalizzano 4 miliardi di visualizzazioni e 30 milioni di visitatori unici. E grazie agli argomenti tematici e “verticali” dei siti è possibile vendere della pubblicità “intelligente”. La quale ha certamente più valore degli annunci semplici. Il tutto tramite il sistema delle aste (Rtb). Che in Francia è passato dal 4% del 2011 a 8% del 2012. E per il 2013 si prevede un balzo al 15%.
In Italia, come detto in precedenza, questo tipo di business non è ancora molto presente. Tuttavia non mancano delle proposte per risollevare la pubblicità. Lorenzo Sassoli De Bianchi, presidente dell’Upa (Utenti pubblicità associati), l’associazione che riunisce le più importanti società che investono in pubblicità, ha proposto degli sgravi fiscali per chi aumenta del 10% il proprio investimento in spot ed inserzioni. “Da 2007 ad oggi sono stati persi 3 miliardi di euro. Bisogna incentivare gli investimenti pubblicitari per evitare una crisi nera”, ha ammonito De Bianchi. Ma per ora si tratta solo una idea nel mare magnum delle proposte.
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