«La salvaguardia delle informazioni personali è solo uno degli aspetti in ballo. Sì, perché la posta in gioco è molto più alta, ed è la libertà individuale ed il funzionamento delle società democratiche». Lo afferma Franco Bernabé, presidente di Telecom Italia, nel suo saggio “Libertà vigilata”. Manco a farlo apposta, proprio mentre il saggio di Bernabé si appresta a sbarcare in libreria Twitter si attrezza per…vendere le informazioni raccolte ai maghi del marketing. E nascono, quasi in contemporanea, i “Privacy Officer”, i professionisti della riservatezza. Ma cosa sta accadendo alla cosiddetta privacy nell’era di Internet? Siamo veramente tutti quanti sottoposti, inconsapevolmente, a libertà…vigilata?
Bernabé, nel suo lavoro, affronta molteplici sfaccettature di un problema spinoso: la “riservatezza” nell’era del web che tutto vede e tutto conosce.
I quesiti irrisolti sono tanti. Procediamo con ordine e partiamo dai dati raccolti dalla imprese: possono essere sfruttati, in maniera indiscriminata, per le esigenze di marketing? I grandi motori di ricerca o i social network, che recepiscono per loro “natura” una quantità infinita di informazioni, hanno degli obblighi nei confronti degli utenti, oppure i dati ottenuti sono di proprietà di chi li raccoglie?
Nel suo saggio il presidente di Telecom si pone questi interrogativi. E li pone soprattutto al lettore. Auspicandosi, in qualche modo, una risposta. Sì perché, almeno al momento, una ricetta che risolva tutto non c’è. E forse non potrà esserci a breve.
Tuttavia vale la pena affrontare e ragionare sul tema della privacy. Più il mondo si “interconnette”, maggiori sono le potenzialità comunicative delle nuove tecnologie e più la nostra riservatezza va ad erodersi.
Bisogna comunque precisare che cosa si intende per “privacy”. Con questo termine, infatti, non si intende la sola mera riservatezza dei dati personali. Si va ben oltre. Perché anche l’errata gestione delle informazioni può influenzare l’identità virtuale dei cittadini. Poco male! Direte voi. Sarà. Però la domanda nasce spontanea: al giorno d’oggi esiste una identità virtuale totalmente disconnessa con quella reale? Non si tratta di una domanda retorica. Molti fruitori del web utilizzano la rete come un prolungamento della propria personalità. E il web, a sua volta, interagendo con loro in maniera assolutamente non casuale, si fonde con l’internauta di turno, “manipolando” la sua identità.
Una sorta di principio di “azione e reazione” traslato sullo spazio cibernetico.
E quindi, si potrebbe finire, senza saperlo, ad «essere ciò che Google dice che tu sei», afferma Bernabé.
A riguardo non c’è una dottrina giurisprudenziale che ha affrontato il problema. Né, probabilmente, potrà esserci. Il web, infatti, non ha confini. Il popolo della rete è una comunità che prescinde dagli ordinamenti giuridici nazionali. Quindi chi dovrebbe legiferare? E chi dovrebbe far rispettare tali norme? Ad oggi ancora non si sa. Certo, ci sono le Autorità nazionali per la privacy. C’è l’Ue che dà precise disposizioni. Ma non hanno, né possono avere ancora, un potere esecutivo reale. In altre parole le disposizioni applicate rischiano di non essere giuridicamente effettive e omogenee in tutto il globo.
Ad esempio Bernabé parla del modello americano. Negli Usa esisterebbero modelli di business che “mercificano” i dati raccolti dal web. Nei paesi della comunità europea questo è (dovrebbe essere) vietato. Una soluzione univoca e condivisa non c’è ancora. Ma il punto d’arrivo, per Bernabé, è chiaro: bisogna andare oltre i paradigmi attuali. Il consenso preventivo al trattamento dei dati personali non basta. Nemmeno l’opposizione ad un trattamento già iniziato aiuta a risolvere il problema. Il presidente di Telecom sogna una gestione consapevole e monitorata dei propri dati e del modo con cui questi vengono utilizzati. Ma come fare per controllare continuamente la propria identità (virtuale)?
Ecco che arriva in soccorso una nuova categoria di professionisti. Si tratta dei Privacy Officer: una sorta di gestore dell’identità.
E non si tratta di una invenzione fantascientifica, né di un proposito futuribile. Infatti sono già stati organizzati veri e propri corsi professionali che insegnano il mestiere del Privacy Offer. Nel mese di settembre, nei locali dell’Università Marconi di Roma, si è tenuto un corso finalizzato a formare questi “difensori della riservatezza”. Quella del gestore dell’identità è una figura professionale introdotta anche dal Regolamento europeo. Infatti la didattica del corso è dettata dal Dlgs 196/2003 e prepara all’esame di certificazione sugli standard della Normativa Europea Iso 17024/2004.
Ma basterà istruire dei professionisti per garantire la privacy nell’era di Internet? Per ora non possiamo saperlo. Non ancora almeno.
Di certo la presenza di operatori sovranazionali, come accennato in precedenza, rende difficile ogni tipo di controllo. Soprattutto se si tratta di soggetti “amati” e scelti dagli stessi utenti.
Facciamo l’esempio di Google, Facebook e Twitter. Il motore di ricerca di Mountain View, il più usato al mondo, è attentissimo alle ricerche degli utenti. Il tutto per fornire suggerimenti commerciali fatti su misura. E anche il social network creato da Mark Zuckerberg manda in continuazione messaggi pubblicitari assolutamente non casuali. Il tutto, sfruttando i dati che gli stessi utenti forniscono, più o meno consapevolmente, alla rete. Twitter, infine, non sembra essere da meno. Il social network dai 140 caratteri, si sta evolvendo proprio per ottimizzare le informazioni dei propri utenti.
«Abbiamo già trovato il modo di elaborare in forma anonima le informazioni che il nostro parco utenti ci fornisce. Lavoreremo questi dati e li venderemo ai maghi del marketing. Ma attenzione, non violeremo la privacy», ha dichiarato Tony Wang, general manager per l’Europa del social network che…cinguetta. In altre parole Wang sembra aver trovato la quadratura del cerchio. E così Twitter sfrutterà il flusso spontaneo di informazioni che i 550 milioni di utenti nel mondo, di cui 4 in Italia, forniscono, ogni giorno, gratuitamente.
In effetti gli utenti dei social sono anche consumatori. E in quanto tali lasciano informazioni preziose durante gli scambi di messaggi. Informazioni sui propri stili di vita, sugli hobby e sui prodotti che preferiscono. Suggerimenti che fanno gola ai maestri del marketing. «Forniremo alle aziende dati dettagliati sui comportamenti degli utenti, sui loro desideri di consumatori. Le loro reazioni ad un determinato evento televisivo e sportivo. Noi elaboreremo questi dati in forma anonima, li impacchetteremo e li venderemo alle aziende», ha aggiunto Wang.
Nel 2001 Harold A. Innis, economista, storico e pioniere della sociologia della comunicazione, ha scritto un libro, “Impero e Comunicazioni” in cui introduce il rapporto tra informazione e potere. Per lo studioso non esiste un sistema di potere senza comunicazione e non esiste comunicazione senza un supporto che, a sua volta, ne influenzi il messaggio. In questo caso il supporto è la rete, con tutte le conseguenze del caso.
Forse potremmo dire che tale supporto è proprio il messaggio. Quello filtrato e piegato alle esigenze del marketing.