Il fatto che uno o più soggetti privati (persone fisiche, imprese non bancarie o finanziarie, organizzazioni senza scopo di lucro) prestino denaro ad uno o più altri privati è perfettamente legale sin dalla notte dei tempi. Ciò che un privato (sia persona fisica che giuridica che ente senza personalità giuridica) non può fare è l’esercizio professionale, cioè continuativo nel tempo, di questa attività perché questo configura l’esercizio dell’attività creditizia che può essere esercitata solo dagli intermediari finanziari autorizzati dalla Banca d’Italia ed iscritti nell’Albo da essa tenuto ai sensi degli artt. 106 e seguenti del Testo Unico Bancario. Chi esercita professionalmente l’attività creditizia senza questa autorizzazione incorre in sanzioni penali. Il social lending o prestito tra privati o P2P è assimilabile, di solito, dal punto di vista economico ai prestiti personali non finalizzati (cioè che non hanno uno scopo vincolante, come, per esempio, l’acquisto di una casa o di un’automobile, ecc., ma i cui importi possono essere spesi per qualsiasi finalità), una delle tipologie più frequenti di credito al consumo che, in quanto tali, non prevedono garanzie a protezione del prestatore contro il rischio di fallimento del debitore. Nulla vieta, però, che si possa creare una linea di prestiti P2P finalizzati, per esempio, all’avvio di attività di impresa o all’acquisto di macchinari o impianti per essa, ecc. Con il social lending, chi presta denaro mediamente percepisce un tasso di interesse più favorevole rispetto a quello proposto dagli intermediari finanziari tradizionali e chi lo riceve in prestito paga un tasso di interesse leggermente più alto rispetto ai finanziamenti a medio termine per l’acquisto di macchinari, ecc., ma parecchio più basso rispetto ai tassi del normale credito al consumo.2 Ciò è possibile perché i costi di intermediazione del social lending sono ridotti, in quanto il prestatore e il richiedente (il contraente il prestito, cioè il debitore) vengono messi in relazione diretta e le imprese o gli enti non profit intermediari, operando sul web con servizi altamente automatizzati, hanno costi operativi molto bassi. Ad ogni richiedente un prestito P2P viene assegnato un rating, cioè un giudizio sul suo livello di affidabilità, interrogando le centrali rischi private (CRIF, ecc.), in modo del tutto simile a quanto fanno le banche e le società finanziarie. Più il livello di questo rating è basso e più i tassi di interesse per i prestatori sono alti per compensare il rischio. Il prestito viene erogato dopo un’analisi della documentazione fornita dal richiedente a controprova di quanto dichiarato on line. Al suo ammontare contribuiscono una pluralità (anche decine o centinaia) di prestatori, ognuno con una quota capitale ed un tasso specifico, ed è a tasso fisso, calcolato come media ponderata dei tassi richiesti dai singoli prestatori. Il richiedente restituisce il prestito con una rata di cadenza minima mensile, oppure più lunga (trimestrale, ecc.), normalmente per mezzo di un addebito diretto su conto corrente bancario (RID) ed è poi compito dell’intermediario di social lending ridistribuire la rata ai prestatori secondo la quota capitale e la quota interessi spettante a ciascuno. Facciamo notare che questo è quanto avviene di solito nella pratica, ma non esiste oggi nel nostro ordinamento una norma che obblighi la società o l’ente di social lending ad offrire il servizio di pagamento, per cui la corresponsione delle rate può avvenire anche mediante pagamenti diretti dal debitore ai creditori, senza passaggi intermedi. Se invece, come avviene di solito nella pratica, l’operatore di social lending, cioè il gestore del sito web su cui si svolge questa attività offre il servizio di pagamento, cioè quello di trasferimento di somme di denaro da uno o più soggetti ad uno o più altri soggetti3, allora esso rientra giuridicamente nella categoria di operatori definita “Istituti di pagamento” (IP) dalla normativa europea recepita dalla legge italiana, precisamente dalla Direttiva CE n° 64 del 2007 (la c.d. Direttiva “PSD – Payment Service Directive”, recepita in Italia col Decreto Legislativo n° 11 del 2010, che al suo articolo 33 ha introdotto il nuovo Titolo V-ter del Testo Unico Bancario, il Dlgs 385/1993, che disciplina appunto gli Istituti di pagamento)4.5 Sulla base di questi presupposti normativi, e precisamente del 4° comma dell’art. 114-novies TUB, la Banca d’Italia, credo all’inizio di quest’anno (2013), ha autorizzato ad operare due Istituti di pagamento la cui attività principale non è la fornitura di servizi di pagamento ma la gestione di piattaforme web di social lending e dei contratti di prestito fra privati che per mezzo di esse si stipulano: Smartika (che appartiene al Gruppo Banca Sella) e Prestiamoci (che ad Agosto risultava avere sospeso l’accettazione clienti ritengo in vista di una ristrutturazione interna) (i siti web sono: www.smartika.it e www.prestiamoci.it ). Ovviamente, ciò che ha fatto la Banca d’Italia è giuridicamente corretto: se un’impresa fornisce servizi di pagamento e non è una banca o un Istituto di moneta elettronica essa è un Istituto di pagamento e deve rispondere ai requisiti previsti dalla apposita disciplina. In particolare, dobbiamo segnalare che per legge un Istituto di pagamento deve avere forma giuridica di società di capitali (Spa, Srl o Sapa) e questa deve avere un capitale sociale il cui ammontare viene indicato da Banca d’Italia sulla base delle attività che l’Istituto di pagamento che chiede l’autorizzazione vuole esercitare (come previsto dalle lettere a e c del 1° comma dell’art. 114-novies TUB). Per esempio, Smartika, che è una società per azioni, ha un capitale sociale di 125.000 Euro quindi di poco superiore al capitale sociale minimo delle Spa (120.000 Euro). Proseguendo la descrizione delle vicende che possono avere i contratti di social lending, segnaliamo che, in caso di morosità di uno o più richiedenti, la società o l’ente di social lending attiva i programmi di recupero crediti a nome e nell’interesse di tutti i prestatori coinvolti. I prestatori partecipano al prestito mettendo in offerta il denaro, in una delle due modalità tipicamente proposte dalla società o dall’ente di social lending: l’asta al ribasso in cui i prestatori competono tra loro per partecipare al prestito o il tasso fisso stabilito dall’ente. Per mitigare il rischio il prestatore può scegliere le tipologie di rischio del richiedente e diversificare così l’investimento. Egli, quindi non presta mai la somma offerta ad un singolo richiedente ma essa viene suddivisa su una pluralità (di solito decine ma si può arrivare anche a centinaia) di richiedenti diversi. In alcuni casi le piattaforme web di social lending offrono la possibilità ai prestatori di cedere i propri crediti ad altri prestatori, in una sorta di mercato secondario, per rientrare rapidamente dall’investimento in caso di necessità.
Quindi, per come è strutturata l’attività di social lending, di solito essa riesce a generare prestiti di importo limitato, come il microcredito. Per esempio, i prestiti concessi da Smartika non possono superare i 15.000 Euro e sono rimborsabili da 24 a 48 mesi. Non vi è, però, come per il microcredito, un limite legale all’importo massimo del prestito erogabile.
Le imprese di social lending sono organizzazioni for profit, cioè a scopo di lucro. Esse generano il proprio fatturato con una commissione percepita dai richiedenti al momento dell’erogazione del prestito e una commissione percepita dai prestatori per il servizio, tipicamente su base annuale e calcolata in percentuale sugli importi prestati e/o sugli interessi percepiti.
Attualmente, però, non esiste alcun divieto legale per le società cooperative o per le associazioni e le fondazioni, quindi per gli enti senza scopo di lucro o con scopo mutualistico, di esercitare una attività di social lending, cioè di prestito fra privati senza fornire servizi di pagamento. L’attività si potrebbe configurare come un social network che mette in contatto e fa conoscere tra loro persone disposte a prestare e persone che cercano un prestito. I ricavi per il gestore di un sito web di questo tipo potrebbero venire dall’adesione dei partecipanti ad esso e dalla consulenza sulla stipulazione del contratto e la gestione del successivo rapporto.6 Per questo motivo abbiamo finora parlato sempre di imprese e di enti (non profit) di social lending, perché entrambe le modalità sono possibili e lecite.
Da un punto di vista giuridico, inoltre, sia il prestatore che il richiedente stipulano un contratto concluso a distanza con l’impresa di social lending7. In particolare il richiedente si riconosce debitore di un determinato numero di prestatori, ognuno identificato dal suo nickname (solo l’azienda o l’ente conosce le identità reali, prestatori e richiedenti si conoscono tra loro via nickname). Ma questo non costituisce un obbligo legale, per cui si potrebbero configurare enti di social lending che mettano in contatto, quindi facciano conoscere tra loro, persone che vogliono prestare e persone che cercano un prestito. Il prestito erogato dal prestatore non è protetto da garanzie nel caso di default, cioè di fallimento, del richiedente. In questo caso il o i prestatori saranno dei normali creditori chirografari e non dei creditori privilegiati (i cui crediti, cioè, sono assistiti da privilegio, pegno o ipoteca e pertanto vengono soddisfatti prima dei crediti chirografari).
In caso di fallimento dell’impresa di social lending, se questa è un Istituto di pagamento ai sensi del Testo Unico Bancario modificato dal Dlgs 11/2010, il denaro del prestatore è protetto dalle azioni dei creditori dell’azienda stessa e la restituzione delle rate residue prosegue a cura della procedura fallimentare. Questo perché, ai sensi degli artt. 114-duodecies e 144-terdecies del TUB, introdotti dal Dlgs 11/2010, le somme versate all’Istituto di pagamento dai prestatori e dai debitori di operazioni di social lending costituiscono un patrimonio distinto da quello della società di capitali che svolge tale attività. Ciò non vale per un ente non profit che esercita l’attività di social lending con le modalità che abbiamo esposto in precedenza.
Infine, siccome i prestiti di social lending sono effettuati tramite Internet, quindi un mezzo di comunicazione a distanza, vale a dire una tecnologia che permette di stipulare un contratto senza che sia necessaria la contemporanea presenza delle parti o di loro rappresentanti nello stesso luogo fisico, essi, se chi riceve il prestito è un consumatore (cioè una persona fisica che acquista un servizio finanziario qual è un prestito per motivi non inerenti all’attività lavorativa da lei eventualmente svolta)8, costituiscono contratti a distanza di servizi finanziari coi consumatori. Quindi, in questo caso, ad essi si applicano le norme di tutela dei consumatori previste dagli articoli da 67-bis a 67-vicies bis del “Codice del consumo”, il Decreto Legislativo n° 206 del 2005, che si sostanziano, essenzialmente, nel diritto di informazione precontrattuale (cioè nel diritto di ricevere una serie di informazioni previste dalla legge prima che il contratto sia concluso) e nel diritto di recesso dal contratto stesso entro 14 giorni di calendario da parte del consumatore senza penalità e senza che sia necessario indicare il motivo del recesso.
fonte: www.diritto.it
Una recente risoluzione del Parlamento europeo, che alleghiamo, si è espressa sullo Stato di diritto…
Se ne parla tra sette giorni: mercoledì 20 novembre è convocata la commissione parlamentare di…
Manovra, Forza Italia scende in campo per tutelare e sostenere il pluralismo dell’informazione. E lo…
Piovono minacce sulla redazione di Report, la denuncia è arrivata da Sigfrido Ranucci, conduttore della…
Gli editori di Aie, insieme a librai e bibliotecari, incontrano il ministro alla Cultura Alessandro…
Scendono oggi in piazza i giornalisti di Fase 2. Si tratta dei cronisti Rai che…