LA DISCIPLINA DELL’IMPRESA EDITORIALE
di Vincenzo Ghionni
Sommario: 1 Il difficile cammino verso il mercato. 2 Il mercato editoriale e la prima privatizzazione delle imprese di comunicazione. 3 La titolarità delle imprese editoriali. 4 Il trasferimento delle partecipazioni. 5 L’oggetto sociale. 6 Le cooperative giornalistiche. 7 La cessazione delle testate giornalistiche. 8 La pubblicazione dei bilanci e gli obblighi di informativa. 9 Le disposizioni antitrust. 10 Conclusioni.
Il tema dell’esistenza di uno statuto dell’impresa editoriale è ricorrente. Ma la complessa delimitazione degli spazi di libero mercato in un settore cruciale per la democrazia si muove nell’ambito di dinamiche e posizioni contrapposte.
Infatti, da un lato, l’impresa editoriale opera sul mercato e, pertanto, è assoggettata alla disciplina di diritto comune; e l’eventuale introduzione di ulteriori vincoli e limitazioni all’autonomia privata determinerebbe una perdita di competitività del settore. In questa prospettiva, è difficile trovare le ragioni che possano giustificare una disciplina tipica dell’impresa editoriale.
Ma dall’altro lato occorre tener conto della peculiarità del prodotto dell’impresa editoriale, ossia l’informazione. La particolarità non è solo nel prodotto ma anche nella materia prima: il lavoro intellettuale dell’uomo che, in questa attività, esplica diritti costituzionalmente garantiti. Da quest’angolo visuale, la prospettiva cambia sostanzialmente.
I lavori preparatori della riforma del 1981 testimoniano l’attenzione che da sempre è stata posta su questo delicato tema, che fu affrontato anche dal gruppo di lavoro incaricato di una prima indagine sulla riforma dell’editoria nel 1996. Lavori che si conclusero con una interessante pubblicazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ed anche recentemente, in occasione delle audizioni della Commissione Cheli, che ha prodotto la bozza del disegno di legge Levi[1], il tema dello statuto speciale dell’impresa editoriale è stato oggetto di indagine. In realtà la Commissione è partita dall’assunto che l’attuale legislazione non configura l’esistenza di uno statuto speciale, nonostante le norme tipiche che analizzeremo nel seguito. In particolare[2], tale considerazione nasceva, a nostro avviso, dall’assenza di norme che regolano i rapporti esistenti all’interno dell’impresa tra la redazione e gli organi societari; senza tener conto dell’esistenza delle norme, anche stringenti, in materia di proprietà delle quote di partecipazione al capitale sociale e delle norme antitrust di settore. In realtà, i rapporti interni sono regolati dal contratto nazionale di lavoro e dalle norme che disciplinano sotto il profilo deontologico l’esercizio della professione giornalistica. Se l’esistenza di uno statuto speciale fosse demandato esclusivamente all’esistenza di norme che regolino i rapporti tra dipendenti e società dovremmo rilevare che non esiste uno statuto speciale degli istituti di credito, delle assicurazioni e delle imprese di navigazione marittima. Preferiamo, invece, partire da un angolo visuale diverso per apportare elementi nuovi al dibattito.
L’obiettivo di questo lavoro è analizzare la disciplina dell’impresa editoriale per definire se è configurabile, a legislazione vigente, uno statuto speciale dell’impresa editoriale, tenendo conto degli interessi collettivi sottesi al prodotto di quest’industria e tenendo conto sia dell’evoluzione del mercato che della sua dimensione sempre più internazionale.
Pertanto, nella prima parte del lavoro l’analisi si muoverà su un piano di verifica e di approfondimento della legislazione vigente. Una serie di profili importanti, ma non centrali, quali la qualificazione del prodotto editoriale, la disciplina della distribuzione ed il sistema di contribuzione non troveranno luogo in questa sede, in quanto non riguardano direttamente l’impresa editoriale ed il relativo, eventuale, statuto.
L’esercizio dell’attività di informazione deve essere inquadrata alla luce del principio costituzionale dettato dall’art. 21 della Costituzione, in tema di libertà di espressione, che prevede, esplicitamente, il divieto di assoggettare la stampa ad autorizzazione. In questa prospettiva, è evidente che il legislatore può introdurre caratteri di tipicità a carico delle imprese editoriali, ma senza introdurre vincoli che ledano principi di ordine superiore.
Il primo comma dell’art. 1 della legge n. 416/81[3] prevede che “l’esercizio dell’impresa editrice di giornali quotidiani è riservato alle persone fisiche nonché alle società in nome collettivo, in accomandita semplice[4], a responsabilità limitata, per azioni, in accomandita per azioni o alle cooperative”.
Da una prima lettura della norma si evince che l’esercizio dell’attività editoriale è, praticamente, consentito a tutti i tipi di impresa previsti dal codice civile, a prescindere, dal tipo di organizzazione individuale o societaria prescelta[5].
In realtà, il principio fortemente innovativo rispetto alla situazione preesistente è l’inibizione assoluta per le pubbliche amministrazione, in tutte le sue configurazioni, dell’esercizio dell’attività editoriale. Infatti, il comma 14 dell’art. 1 della legge n. 416/81 prevedeva, dalla data di entrata in vigore della legge, il divieto a carico degli enti pubblici e delle società a partecipazione statale, nonché a quelle da esse controllate, di costituire o acquisire nuove partecipazioni in aziende editoriali di giornali o di periodici che non abbiano carattere tecnico esclusivo in relazione all’attività istituzionale dell’ente o della società.
La previsione di una sostanziale libertà del tipo di organizzazione societaria, unitamente al divieto per la pubblica amministrazione di svolgere attività editoriale, ha rappresentato, in pratica, l’avvio del procedimento di liberalizzazione e di privatizzazione dell’industria editoriale, con una scelta che ha anticipato quella successivamente adottata per il mercato dell’audiovisivo e delle telecomunicazioni[6].
La difficoltà di imporre alla pubblica amministrazione italiana, nelle sue varie e disparate configurazioni, il rispetto di regole dettate con puntualità dal legislatore ed ispirate a principi liberali è dimostrata dall’evoluzione della prassi degli ultimi anni. La previsione della legge n. 416/81 è quanto mai puntuale. Il mercato dell’editoria a mezzo stampa è composto da soggetti privati che operano in regime di concorrenza. La pubblica amministrazione può editare solo prodotti tecnici e strettamente inerenti l’attività dello stessa. In altri termini, la Gazzetta Ufficiale o prodotti specialistici che non concorrano con pubblicazioni rivolte al mercato. Eppure la realtà va in direzione diversa. Infatti, con la legge n. 150 del 7 giugno 2000, rubricata “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”, che ha rafforzato il sistema di comunicazione dell’attività istituzionale da parte delle pubbliche amministrazioni, le stesse hanno trovato ragione per editare e produrre contenuti, in violazione di una precisa norma di legge. A nostro avviso la legge n. 150/2000 è perfettamente in linea con la necessità di modernizzare il rapporto tra P.A. e cittadini e di rendere maggiormente trasparente l’attività della prima. In questa prospettiva, è previsto l’utilizzo dei giornalisti, ossia di figure professionali autonome dai poteri esecutivi per realizzare i contenuti da trasmettere ai cittadini, utilizzando per la diffusione degli stessi l’unico strumento possibile: i mezzi di comunicazione di massa. L’intento del legislatore di modernizzare l’attività dello Stato ha creato un punto di contrasto con la legislazione previgente, laddove la legge n. 150/00 lascia intravedere, o meglio alcuni pubblici amministratori hanno ritenuto di intravedere, la possibilità per le pubbliche amministrazioni di pubblicare in via autonoma giornali e periodici, o addirittura emittenti radiotelevisive, entrando evidentemente in concorrenza con i privati. In altre parole, la legge è volta a stimolare la comunicazione e l’informazione circa le attività della pubblica amministrazione; ciò non significa aver abrogato il contenuto del comma 14 dell’art. 1 della legge n. 416/81. La storia dell’informazione in Italia a mezzo stampa è piena di ingerenze da parte dello Stato, per secoli, il maggiore editore[7]. Il rischio è che, in totale distonia con lo spirito del legislatore, la legge n. 150/00 favorisca iniziative editoriali da parte delle pubbliche amministrazioni – in particolare quelle locali – drenando risorse istituzionalmente riservate al sostegno delle iniziative private e determinando evidenti distorsioni nel funzionamento del mercato. Sarebbe auspicabile che il legislatore, una volta giunto alla determinazione di produrre un testo organico di riforma dell’editoria, con lo stesso coraggio di quello del 1981, configuri in maniera puntuale la funzione della pubblica amministrazione rispetto al mercato editoriale. Sotto questo profilo rileviamo che, anche in assenza di una norma specifica, l’attuale impianto normativo, ed il riferimento è anche al testo unico dell’emittenza radiotelevisiva[8], è tale che ogni attività editoriale da parte della pubblica amministrazione che non sia squisitamente di carattere tecnico e strumentale allo scopo dell’ente, è vietata. E l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, rebus sic stantibus, avrebbe, o meglio ha, le competenze, il potere, ed a nostro avviso, il dovere di intervenire, sanzionando gli enti inadempienti.
La scarsa attenzione a questo delicatissimo profilo hanno consentito e consentono a molte amministrazioni pubbliche, in particolar modo locali, ed società a partecipazione pubblica di operare in maniera illegittima sul mercato, forti dell’ignavia delle istituzioni cui è delegata la funzione di controllo e sanzione di dette fattispecie.
La legge n. 416 del 5 agosto 1981 si è dimostrata un efficace strumento di politica industriale per riequilibrare un mercato caratterizzato da una crisi generale[9]. E con largo anticipo rispetto a quanto accadrà in seguito per altri settori della comunicazione il legislatore intese, come detto, vietare allo Stato la gestione diretta delle imprese editoriali, attribuendogli una funzione di regolatore e di sostegno al settore.
In tale prospettiva, fu introdotta una stringente disciplina in materia di partecipazioni, al fine di favorire la nascita ed il consolidamento di realtà editoriali autonome rispetto ad altri interessi di natura imprenditoriale e politica. I cospicui contributi previsti dalla legge n. 416/81 dovevano, in altri termini, essere indirizzati ad imprese che svolgessero l’attività esclusivamente nel settore di riferimento. Il pluralismo non è solo questione di numeri. La funzione di una impresa editrice, o meglio del suo prodotto, va vista alla luce dell’esigenza dei cittadini di conoscere non solo il nome proprietario del giornale, ma anche gli interessi politici ed economici che questi può tutelare attraverso un mezzo di comunicazione di massa. Da tale angolo visuale ben si spiega tutta la complessa normativa in materia di assetti che è rivolta a rendere pubbliche le partecipazioni, tanto da rendere trasparenti le proprietà e note le persone fisiche cui il controllo dell’azienda editoriale è riconducibile[10].
In tale direzione, il comma 3 dell’art. 1 della legge n. 416/81 prevede che quando l’impresa è costituita in forma di società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata, le azioni aventi diritto di voto o le quote sociali devono essere intestate a persone fisiche, società in nome collettivo, in accomandita semplice o a società a prevalente partecipazione pubblica[11]. Nell’ipotesi in cui le azioni aventi diritto di voto o le quote sociali siano intestate a società di capitali, la partecipazione di controllo di dette società deve essere intestata a persone fisiche o a società direttamente o indirettamente controllate da persone fisiche[12]. Segnaliamo la mancata previsione delle associazioni tra i soggetti legittimati alla titolarità di partecipazioni in società editrici di quotidiani. A nostro avviso, le associazioni non possono, ai sensi del primo comma dell’art. 1 della legge n. 416/81, editare direttamente giornali quotidiani, o periodici con oltre cinque dipendenti giornalisti. Ciò, in quanto la norma elenca in maniera dettagliata i soggetti legittimati a detta attività. Di contro, non ravvediamo motivi ostativi alla partecipazione di associazioni in società di capitali editrici o socie di società editrici, purchè rispettino i principi in materia di trasparenza.
In altri termini, la norma legittima l’intestazione delle quote o delle azioni delle società editrici di quotidiani ad altre società di capitali, purchè le partecipazioni di controllo di queste ultime sia riconducibile a persone fisiche. O meglio, questa è la logica; perché in realtà dalla lettera della disposizione si rileva che l’individuazione delle persone fisiche che controllano debba avvenire entro il terzo livello della catena partecipativa. Ora appare una distonia tra la ratio della disposizione, ossia l’individuazione delle persone fisiche che controllano le società editrici di quotidiani, e la scrittura letterale della norma che, come detto, impone la presenza entro il terzo livello delle persone fisiche che controllano la società. In tale prospettiva, riteniamo che l’interpretazione letterale della norma rischi di comprimere la libertà imprenditoriale che deve presiedere le scelte in materia di organizzazione imprenditoriale a monte degli assetti partecipativi, scavalcando l’obiettivo del legislatore che è quello di rendere trasparente il controllo delle imprese editoriali[13].
L’esplicito riferimento alle azioni aventi diritto di voto[14] consente di escludere dal regime di trasparenza le azioni privilegiate ed i titoli di partecipazione al capitale sociale che non attribuiscono al detentore l’esercizio del diritto di voto in assemblea.
Al fine di favorire la patrimonializzazione delle società, in deroga al principio generale, l’art. 3 prevede che le società con azioni quotate in borsa che esercitano l’impresa editrice di giornali quotidiani o che siano intestatarie di azioni aventi diritto di voto o di quote di società editrici di giornali quotidiani o di società intestatarie di azioni o quote di società editrici di giornali quotidiani sono parificate alle persone fisiche. L’esclusione per le società quotate in borsa dagli obblighi di trasparenza va vista alla luce dell’esistenza, o della presunzione di esistenza, di un controllo stringente effettuato dalla Consob sugli assetti partecipativi delle società che fanno ricorso al mercato dei capitali. In questo caso, è evidente che la norma prevede un raccordo tra istituzioni nell’ipotesi di accertamenti sulle proprietà[15]. Su questo aspetto, confessiamo alcune perplessità di fondo. Il principio della sostanziale esenzione delle società quotate in borsa dalla disciplina in materia di trasparenza è sicuramente condivisibile. Infatti, la natura di questo tipo di società e la variabilità della partecipazione al capitale non consentono l’applicazione di una normativa così stringente. Basti pensare alla numerosità delle compravendite quotidiane ed all’onerosità dei flussi informativi. Ed anche alle impossibili verifiche sulla natura giuridica degli acquirenti. Ma la norma ha come finalità principale quella di informare il lettore su chi è la persona fisica o, in questo caso, il gruppo economico e politico, che controlla il giornale; basti pensare alle norme in materia di trasparenza dei patti parasociali . Si tratta di una tutela di un interesse collettivo e di un diritto soggettivo dei cittadini. In questa prospettiva, il controllo di una società di capitali deve essere reso trasparente; a prescindere dalla eventuale quotazione in borsa che rientra nell’ambito di una libera scelta dell’editore che, a nostro avviso, non deve essere discussa ma che non può esimere dall’obbligo di rendere trasparente l’assetto di controllo e gli interessi sottostanti.
Inoltre, il secondo comma del medesimo art. 3 della legge 416/81 prevede che l’intestazione delle quote o delle azioni delle società editrici di giornali quotidiani ad enti morali costituiti e registrati ai sensi degli articoli 14 e 33 del cod. civ.[16] è parificata all’intestazione a persone fisiche[17].
E’, inoltre, vietata l’intestazione a società fiduciarie della maggioranza delle azioni o delle quote delle società editrici di giornali quotidiani[18] costituite in forma di società per azioni o in accomandita per azioni o a responsabilità limitata o di un numero di azioni o di quote che, comunque, consenta il controllo delle società editoriali stesse ai sensi dell’art. 2359 c.c.; analogo divieto vale per le azioni o le quote delle società che direttamente o indirettamente controllino le società editrici di giornali quotidiani[19]. In deroga a questa norma, il successivo comma 9 prevede che i partiti politici rappresentati in almeno un ramo del Parlamento o in un consiglio regionale o le associazioni sindacali rappresentate nel Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro possono intestare fiduciariamente, con deliberazione assunta secondo i rispettivi statuti, le azioni o le quote di società editrici di giornali quotidiani o periodici[20].
In relazione alla territorialità sono ammessi ad esercitare l’attività editoriale solo i soggetti in possesso della cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione europea o, in caso di società, con sede legale in uno degli stati dell’Unione. Nell’ipotesi di paesi non comunitari la legittimazione all’esercizio dell’attività editoriale è subordinata all’applicazione del trattamento di effettiva reciprocità da parte dello Stato di appartenenza[21].
Il mancato rispetto delle condizioni di trasparenza comporta la cancellazione d’ufficio dell’impresa dal Registro degli Operatori della Comunicazione tenuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Le disposizioni sinora commentate si applicano alle imprese proprietarie ed editrici delle testate ed alle imprese che editano un giornale quotidiano o periodico in ragione di un contratto di gestione con la società proprietaria della testata[22]. A nostro avviso, invece, tali norme non si applicano ai soggetti proprietari delle testate in quanto gli stessi non esercitano l’attività regolamentata dalla legge, a meno che il contratto di affitto o di affidamento in gestione della testata contenga clausole tali da determinare un’ipotesi di collegamento contrattuale, ai sensi delle norme già menzionate. Le fattispecie sono numerose; a titolo esemplificativo, la durata del contratto di gestione della testata, l’esistenza di clausole risolutive che non abbiano una corrispondenza sinallagmatica tra la prestazione dell’editore e quella del proprietario. Sull’argomento si segnala l’assenza di interventi da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che, purtroppo, lasciano presumere l’assenza di un controllo su questo delicatissimo profilo.
Il trasferimento delle partecipazioni è puntualmente disciplinato dall’art. 2 della legge n. 416 del 5 agosto 1981[23].
Il principio generale che ispira il sistema è quello della trasparenza degli assetti partecipativi, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Infatti, il primo comma prevede che il trasferimento, a qualsiasi titolo, di azioni, partecipazioni o quote di società editrici di giornali quotidiani, che interessi oltre il 10 per cento del capitale sociale[24] debba essere comunicato all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni entro trenta giorni[25].
Detta comunicazione va, inoltre, pubblicata su tutte le testate edite dalle imprese danti ed aventi causa[26].
Gli obblighi di comunicazione e di trasparenza assumono efficacia anche nell’ipotesi di patto parasociale o sindacato di voto[27], laddove si determini una situazione di controllo dell’impresa editoriale.
I trasferimenti di quote o di azioni che comportano una violazione delle norme in materia di titolarità delle imprese editoriali sono nulli.
In relazione alla dichiarazione di nullità la giurisprudenza ha privilegiato la sostanza alla forma; in tale prospettiva, il Tribunale di Milano con la sentenza del 14 maggio 1986[28] ritenne che l’impegno a non esercitare il diritto di voto assunto da un soggetto convenuto in giudizio per la dichiarazione di nullità di atti di cessione[29] fino alla sentenza di primo grado realizzava effetti coincidenti con quelli derivanti da un provvedimento d’urgenza[30].
In realtà, si rileva l’assenza di una norma che determini la sanzione nell’ipotesi di violazione della disciplina in materia di titolarità a seguito di operazioni straordinarie[31]. In altri termini, mentre la circolazione dei titoli di partecipazione al capitale sociale è puntualmente regolamentata, manca una organica regolamentazione delle operazioni sul capitale che possono produrre effetti analoghi. In tale prospettiva, rileviamo che dato per assunto l’interesse superiore alla trasparenza degli assetti, tale asimmetria apri margini di elusione dei principi in termine di trasferimento delle quote o delle azioni delle società editrici.
A prima lettura, comunque, è pacifico che la sanzione è la nullità, atteso l’interesse che sottende la disciplina in oggetto.
A parziale supporto vi è una parte della giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sull’art. 4 della legge n. 416 del 5 agosto 1981, poi abrogata, in tema di norme anticoncentrazione. In particolare, la Corte di Appello di Milano con la sentenza del 3 aprile 1991[32] stabilì che “non si configura un’ipotesi di cessione di azioni di casa editrice rilevante ai fini delle norme antitrust e quindi dell’eventuale sanzione di nullità, allorché la società le cui azioni sono acquistate non si possa identificare come impresa editrice in senso proprio, ma operi come holding di società titolari di imprese editrici”.
Sotto il profilo applicativo, comunque, la fattispecie assume profili di grande interesse. Infatti, nell’ipotesi in cui una società che non risponde alle previsioni contenute all’articolo 1, sottoscriva un aumento di capitale di società editrice di quotidiani, l’organo amministrativo di quest’ultima dovrebbe effettuare l’iscrizione a libro soci ed effettuare le dovute comunicazioni al Registro delle imprese ed al Registro degli operatori della comunicazione. A questo punto, preso atto della violazione delle norme imperative in materia di titolarità delle azioni, l’amministratore rileva la nullità dell’atto, e quindi l’inefficacia dello stesso. Ma di quale? Nell’ipotesi in cui qualche soggetto, legittimato, abbia sottoscritto, in parte, l’aumento di capitale a pagamento appare deviante rispetto ai principi di certezza la declaratoria di nullità dell’intera delibera. In quest’ipotesi, la sanzione a carico dell’impresa che ha illegittimamente sottoscritto la quota di capitale della società editrice dovrebbe essere il mancato diritto dell’esercizio di voto con, nell’ipotesi di mancata sanabilità della posizione di irregolarità, l’attribuzione del diritto di recesso[33]. In questa maniera verrebbero contemperati gli interessi in gioco: sotto un primo profilo, viene garantita la trasparenza degli assetti proprietari, da un altro lato l’impresa editoriale che ha adottato una delibera efficace non è esposta alla nullità della stessa a seguito di un evento dipendente dalla volontà di un terzo. Ed ancora la società partecipante che non risponde alle norme sulla titolarità subisce una sanzione importante: la mancata possibilità di esercitare il diritto di voto, ma con la libertà di chiedere ai soci di sanare la posizione attraverso la cessione delle partecipazioni a monte a soggetti legittimati o esercitare il diritto di recesso.
In questa prospettiva va anche inquadrata l’ipotesi in cui vengano cedute le azioni o le quote di una società socia di una società editrice ad un’altra società, il cui assetto non risponda alle prescrizioni di legge. E’ evidente che, a seguito di un fatto dipendente da un terzo, la società editoriale si troverebbe in una situazione di irregolarità e di illegittimo esercizio dell’attività, per violazione di norme imperative. Ma l’ipotesi di cancellazione dell’impresa editrice dal Registro degli Operatori della Comunicazione appare distonica rispetto ai principi costituzionali. Nelle more della dichiarazione di nullità dell’atto di cessione della partecipazione a valle, l’immediata inibizione del diritto di voto sembra la soluzione più corretta e rispondente alla logica del sistema normativo.
L’esercizio dell’impresa editrice di quotidiani e periodici è riservata alle società il cui oggetto sociale comprenda l’attività editoriale, esercitata attraverso qualunque mezzo e con qualunque supporto, anche elettronico, l’attività tipografica, radiotelevisiva o, comunque, attinente all’informazione ed alla comunicazione, nonché le attività connesse funzionalmente e direttamente a queste ultime[34]. L’attuale formulazione è stata così modificata dalla legge n. 62 del 7 marzo 2001; infatti, il testo originario prevedeva l’obbligo di avere come oggetto sociale, in esclusiva, l’attività editoriale. La differenza tra la norma originaria e quella novellata è sostanziale. Infatti, la norma del 1981 si andava ad innestare in maniera lineare su un percorso organico delineato dalla legge. Ricordiamo, infatti, che con la riforma del 1981 il legislatore intese dare vita ad un mercato dell’informazione a mezzo stampa concorrenziale, con strumenti efficaci, quali il divieto di intraprendere nuove iniziative a carico dello Stato e delle sue emanazioni e gli obblighi di trasparenza. L’intero corpus normativo puntava a creare le condizioni di crescita e sviluppo a favore di imprese che avessero nel settore editoriale l’unico mercato di riferimento. In altri termini, la legge introduceva gli strumenti giuridici per affermare l’attività dei cosiddetti editori puri[35], che, seppure organizzati secondo uno dei tipi societari previsti dal codice civile, avessero, quindi, come unico obiettivo una gestione efficiente dell’azienda editoriale[36]. In questa prospettiva, l’esclusività dell’oggetto sociale realizzava in maniera compiuta le finalità della legge[37]. La novella legislativa apportata dalle legge n. 62/01 snatura il senso originario della norma, in quanto è evidente che una società che operi nel settore dell’editoria a mezzo stampa debba avere quest’attività nell’oggetto sociale[38]; si tratta di un principio di diritto comune che non necessita di alcuna ripetizione in sede di legislazione speciale. Infatti, l’oggetto sociale, oltre a rappresentare un elemento essenziale dell’atto costitutivo, in quanto delimita l’ambito operativo della società, a garanzia sia dei soci che dei terzi, rappresenta il parametro al quale commisurare i poteri di rappresentanza degli amministratori[39]. In tale prospettiva, l’oggetto sociale rappresenta il tipo di attività che la società si propone di svolgere[40] e deve essere indicato nell’atto costitutivo a pena di nullità[41]. Come detto, la funzione è di tutela sia dei soci che dei terzi; i primi assumono, così, la garanzia che l’organo amministrativo operi nei limiti del patto societario[42] ed i secondi, attraverso la pubblicità degli atti societari, sono garantiti circa il potere di agire da parte degli amministratori. Nell’ipotesi della formulazione originaria dell’art. 1 della legge n. 416 del 5 agosto 1981, il vincolo di esclusiva dell’oggetto sociale aveva una funzione ulteriore, in quanto posto a garanzia di un interesse qualificato: l’attività editoriale in esclusiva. L’eliminazione della parola “esclusivo” non può rappresentare una semplice derubricazione dell’interesse, in quanto lo stesso o c’è o non c’è. E nella seconda ipotesi, trattandosi di una precisa scelta del legislatore, prevedere quanto è già insito nell’ordinamento delinea l’imbarazzo o la superficialità con cui si è intervenuti su una norma centrale della legge n. 416 del 5 agosto 1981.
Una figura tipica e ricorrente del settore editoriale è quello delle cooperative giornalistiche, disciplinate dall’art. 6 della legge n. 416 del 5 agosto 1981.
L’analisi della disciplina non può prescindere dall’esegesi storica di questo tipo societario, che è stato oggetto di continui interventi di sostegno, anche con la legislazione successiva[43].
Come più volte detto, nel 1981 il legislatore intervenne con una riforma organica in un momento molto dedicato per l’editoria italiana. Infatti, a partire dalla fine degli anni settanta i sistemi tipografici passarono dal tradizionale sistema di stampa a piombo[44] ad impianti basati su tecniche fotografiche, attraverso l’uso di lastre e pellicole. L’entità degli investimenti metteva a nudo, inoltre, una realtà nazionale poco competitiva, caratterizzata da una diffusa sottocapitalizzazione e troppo spesso controllata direttamente da società a partecipazione pubblica. La riforma tendeva, da un lato, a sostenere le imprese del settore con un intervento diretto e, dall’altro, a dotare il mercato di strumenti competitivi. Il legislatore del 1981 si pose, giustamente, il problema di un settore molto particolare, caratterizzato dall’immaterialità del prodotto e dall’essenzialità ed infungibilità dell’apporto dei dipendenti: i giornalisti. Individuando, tra l’altro nelle cooperative giornalistiche un sistema di salvataggio per le imprese in crisi. Infatti, per comprendere bene la portata della figura delle cooperative giornalistiche bisogna tener conto che il precedente articolo 5 attribuisce nell’ipotesi di cessazione della pubblicazione di un giornale quotidiano o settimanale un diritto di prelazione a favore delle cooperative o consorzi di dipendenti del giornale cessato[45].
Le cooperative giornalistiche sono le cooperative composte da giornalisti[46], costituite ai sensi degli artt. 2511 e seguenti del codice civile ed iscritte all’albo delle società cooperative tenuto a cura del Ministero delle attività produttive, come previsto dall’art. 223-sexiesdecies, comma 1, disp. att. trans. del cod. civ[47]. L’iscrizione all’albo, a nostro avviso, non ha natura costitutiva, ma la mancata osservanza di detto obbligo determina una responsabilità soggettiva degli organi sociali e la decadenza da ogni beneficio di legge previsto dalla normativa in materia di cooperative.
In relazione a quest’ultimo aspetto è fondamentale sottolineare che lo status di cooperativa giornalistica è presupposto per l’accesso ai benefici previsti dall’art. 3 della legge n. 250 del 7 agosto 1990[48].
In questa prospettiva è evidente che la sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge per l’acquisizione dello status giuridico di cooperativa giornalistica è soggetta ad una verifica esterna[49] che si conclude con un procedimento amministrativo di accertamento della sussistenza dei requisiti di legge[50].
Il comma 2 dell’articolo 6 equipara alle cooperative giornalistiche i consorzi costituiti tra una cooperativa composta da giornalisti[51] ed una società cooperativa composta da lavoratori del settore non giornalisti che intendono partecipare alla gestione dell’impresa.
Lo status di cooperativa giornalistica è subordinato alla presenza di norme speciali all’interno dello statuto. Così facendo, il legislatore, introducendo un trattamento di favore per questo tipo di società, subordinava l’acquisizione dei benefici all’effettiva esistenza di norme che garantissero la gestione collegiale dell’impresa. Il mancato adeguamento dell’art. 6 rispetto alle numerose modifiche della disciplina generale in tema di cooperative[52], intervenute negli ultimi anni, crea situazioni di oggettiva incertezza interpretativa.
Il comma 3 prevedeva che gli statuti contenessero le clausole indicate nell’articolo 26 del decreto legislativo n. 1577 del 14 dicembre 1947[53]. L’art. 2514 del cod. civ. ha modificato quanto previsto dal decreto legislativo n. 1577 del 14 dicembre 1947[54]. Ora, in assenza di un aggiornamento della legge n. 416/1981 occorre procedere ad una ricostruzione logica della disciplina applicabile. Sembra pacifico che alle cooperative giornalistiche si debba, oggi, applicare la previsione disposta dall’art. 2514 del cod. civ. e che, pertanto, gli statuti debbano contenere queste clausole. Problema diverso è analizzare l’essenzialità o meno del possesso dei requisiti previsti dalle norme in materia di mutualità prevalente[55] per il riconoscimento dello status giuridico di cooperativa giornalistica. Il testo originale dell’art. 6 faceva riferimento ad un decreto legislativo che dettava norme che assumevano efficacia solo in campo tributario. In altri termini, mutuava un regime giuridico rilevante ad altri scopi per definire una serie di limiti sulla sorte degli utili sia durante la vita della società che in fase di liquidazione. Tale circostanza ci fa propendere, volendo salvaguardare le intenzioni del legislatore del 1981, per l’interpretazione restrittiva[56], nel senso che le cooperative giornalistiche devono possedere la mutualità prevalente.
Diverse sono le ragioni che sostanziano tale opzione. In primis, tutte le norme previste dall’art. 6 della legge n. 416/1981 tendono, come detto, ad assicurare il massimo livello di gestione cooperativa dell’impresa editoriale. Le cooperative sono distinte, a seconda della diversa natura ed attività, in macrogruppi[57]: è pacifico che le cooperative giornalistiche sono per natura cooperative di produzione e lavoro, in quanto l’elemento caratterizzante è l’apporto intellettuale e professionale garantito dai soci. Il possesso della condizione di mutualità prevalente si sostanzia, in questo caso, nella circostanza che almeno il cinquanta per cento del costo del lavoro dipendente sia per lavoro prestato dai soci. E questa pare essere proprio la volontà del legislatore del 1981.
Il possesso del requisito della mutualità prevalente garantisce sicuramente l’accesso ai benefici fiscali, mentre non vi è alcuna norma che condizioni gli altri benefici a questo requisito. Ma, ben vero, anche l’art. 26 del d.Lgs. n. 1577 aveva valenza solo tributaria. Il riferimento della norma in tema di cooperative giornalistiche a questo articolo sostanzia, quindi, l’intento del legislatore di collegare i benefici previsti a favore delle cooperative giornalistiche al possesso dei requisiti per l’accesso ai benefici fiscali.
Inoltre, il riferimento introdotto dal primo comma dell’art. 6 della legge n. 416/81 dell’obbligo di iscrizione ai registri prefettizi determinava l’assoggettamento delle cooperative giornalistiche alle ispezioni del Ministero del Lavoro. Il citato art. 6 infatti, non individuava un organo specifico delegato al controllo ed alla verifica dell’effettiva sussistenza di tutti i requisiti previsti sia dalla norma speciale che, più generalmente, dalla disciplina in tema di cooperazione. Ciò in quanto vi era una delega, seppure implicita, conferita al Ministero del Lavoro. Infatti, la sanzione per il mancato rispetto delle norme in tema di cooperazione, sia di carattere generale che speciale, determinano, a seguito di accertamento da parte dell’Autorità competente[58], la cancellazione dall’Albo[59]. In questa prospettiva, è evidente che il rinvio al controllo effettuato da altra istituzione garantisce una gestione efficiente, evitando duplicazioni di competenze e sovrapposizioni tra istituzioni[60].
Secondo quanto disposto dall’art. 6 della legge n. 416/81, gli statuti societari possono prevedere la partecipazione di altri lavoratori del settore. Il comma 458 dell’art. 1 della legge n. 266 del 23 dicembre 2005 ha previsto che, per accedere ai benefici previsti a favore delle cooperative giornalistiche, le stesse devono essere composte esclusivamente da giornalisti professionisti, pubblicisti e poligrafici. Ciò significa che i soci non giornalisti devono essere, a pena di decadenza dal diritto ai contributi, dipendenti della cooperativa, in guisa da avere la qualifica di poligrafici. In assenza di un regolamento di attuazione della legge n 266/2005 ci sono diversi problemi di natura applicativa. Infatti, la mancata enunciazione delle categorie dei giornalisti praticanti e dei dirigenti delle imprese editoriali[61] crea una discriminazione non giustificabile, a nostro avviso, nei confronti di soggetti che, rispettivamente, stanno accedendo alla professione[62], dei grafici editoriali[63] e dei dirigenti delle stesse cooperative. Analogo problema sussisteva per i grafici editoriali, ossia i dipendenti di imprese editrici di periodici, cui non si applica il contratto nazionale dei poligrafici. La Presidenza del Consiglio dei Ministri è intervenuta su tale fattispecie con la circolare del 7 marzo 2007[64], assimilando i grafici editoriali ai poligrafici.
Gli statuti delle cooperative devono, inoltre, prevedere che tutti i giornalisti dipendenti della cooperativa, con contratto in esclusiva, debbono poter acquisire la qualifica di soci dietro semplice richiesta. Pertanto, in quest’ipotesi, in presenza della richiesta di ammissione da parte di un giornalista in possesso dei requisiti prima indicati, l’organo amministrativo non può che richiedere il versamento della quota sociale e l’accettazione delle clausole statutarie e di eventuali regolamenti adottati dalla cooperativa alla data di richiesta di accesso. Si tratta, evidentemente, di un’applicazione tipica del principio generale della “porta aperta” che costituisce uno degli elementi strutturali della società cooperativa, in quanto ne giustifica il riconoscimento costituzionale[65]. Riteniamo che la qualifica di socio si acquisisca solo con il perfezionamento della domanda, ossia con l’accettazione da parte dell’organo amministrativo o dell’assemblea e la conseguente iscrizione a libro soci. Ne consegue che l’aspirante socio, prima della delibera di ammissione da parte degli amministratori, non goda di alcun diritto soggettivo come socio, trattandosi, di contro, di un obbligo degli amministratori di dare esecuzione ad una norma dello statuto avente natura esterna rispetto all’autonomia decisionale dei soci[66].
Natura diversa ha l’obbligo per le cooperative giornalistiche di associare almeno il cinquanta per cento dei giornalisti dipendenti, aventi clausola di esclusiva[67]. Infatti, in questo caso si è in presenza di un criterio funzionale che, a nostro avviso, deve sussistere in ogni momento della vita della cooperativa[68]. La ratio è la medesima che ha ispirato il legislatore delegato della riforma societaria nel 2003 nella definizione della mutualità prevalente, pur se con criteri di calcolo differenti.
Infine, il sesto comma dell’art. 6 prevede che tutte le designazioni di organi collegiali avvengono per voto uguale e segreto e limitato ad una parte degli eligendi. Anche in questo caso siamo in presenza di una norma rivolta a garantire il massimo livello di partecipazione alla gestione della cooperativa. Il voto pro-capite rappresenta uno dei principi base delle cooperative in cui l’apporto di lavoro dei soci prevale sul capitale investito[69]. Natura, invece, diversa assume il vincolo a nominare gli organi sociali attraverso il voto segreto. Riteniamo che tale norma non vada assorbita negli statuti sociali, mentre rappresenti un dovere che ricade a carico del Presidente dell’assemblea, in osservanza di una norma di legge e non di una clausola statutaria.
In conclusione, riteniamo che la disciplina delle cooperative giornalistiche richieda una urgente revisione rivolta ad adeguare questo tipo di società sia al nuovo diritto societario che alle mutate condizioni generali dell’economia.
La procedura della cessazione delle testate giornalistiche è regolamentata dall’art. 5 della legge n. 416 del 5 agosto 1981
Il regime speciale nell’ipotesi di cessazione o sospensione dell’attività è rivolto a garantire la continuità dell’attività di edizione. E’ evidente che la deroga al principio generale statuito dall’art. 41 della Costituzione sulla libertà dell’iniziativa economica, concetto nel quale occorre ricomprendere anche la libertà di terminare l’attività, è posta a presidio del particolare valore delle testate giornalistiche sia in relazione al pluralismo che all’autonomia del corpo redazionale rispetto a possibili minacce di chiusura da parte dell’editore.
In merito all’efficacia dell’art. 5 della legge n. 416/81 torneremo nel seguito, dopo aver descritto nel dettaglio la procedura.
Nell’ipotesi di cessazione o di sospensione delle pubblicazioni di un giornale quotidiano o settimanale[70]l’editore ha l’obbligo di darne immediata comunicazione alle rappresentanze sindacali ed all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni[71].
Nell’ipotesi in cui la testata sia di proprietà dell’editore la norma introduce un diritto di prelazione a favore dei giornalisti e dei poligrafici che si costituiscono in cooperativa o in consorzio con le modalità individuate nel paragrafo precedente.
Infatti, le cooperative o i consorzi, se interessati ad acquistare la testata, devono presentare un’offerta scritta entro trenta giorni all’editore ed informarne l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Nell’ipotesi in cui pervengano nel medesimo termine altre offerte di acquisto più convenienti all’editore, questo deve darne, entro cinque giorni, comunicazione al consorzio o alla cooperativa, che hanno ulteriori quindici giorni per adeguare la propria offerta a quella più vantaggiosa. Nell’ipotesi in cui l’offerta non venga adeguata, il contratto di cessione della testata definitivo deve essere stipulato entro il termine, a nostro avviso, perentorio di novanta giorni dalla data di cessazione o sospensione delle pubblicazioni.
Nell’ipotesi in cui non vi siano soggetti terzi interessati a rilevare la testata, questa è ceduta alla cooperativa o al consorzio. In assenza di un accordo la legge demanda la decisione ad un collegio arbitrale composto da due membri designati dalle parti e da un presidente scelto da ambedue le parti o, in difetto di accordo nominato dal Presidente del Tribunale competente per territorio[72]. Sotto questo profilo va richiamata la sentenza del Tribunale di Napoli del 15 gennaio 1985[73] che disponeva testualmente che: “Il giudice ordinario non difetta di giurisdizione a conoscere della domanda con cui una cooperativa di giornalisti, con riferimento ad azienda giornalistica con relativa testata[74] sottoposta ad amministrazione straordinaria per sospensione o cessazione delle pubblicazioni[75] chieda di subentrare nel contratto di utilizzazione della testata, stipulato dall’editore con il precedente cessionario, nonché nel godimento ed uso dei relativi locali ed impianti, nè ricorre difetto di giurisdizione nell’ordine al commissario straordinario[76] di immettere la cooperativa nel godimento ed uso predetti[77]”.
Nell’ipotesi in cui la sospensione delle pubblicazioni venga protratta per oltre un mese, in assenza di programmi di ristrutturazione[78], l’Autorità, su istanza della cooperativa o del consorzio, diffida l’editore a riprendere le pubblicazioni, assegnandogli un tempo congruo. Inoltre, laddove l’editore non adempia alla diffida nel tempo previsto si attiva la procedura prima descritta.
Nell’ipotesi in cui la testata non sia di proprietà dell’editore la procedura è, evidentemente, diversa. Infatti, in questa fattispecie la cooperativa o il consorzio hanno la facoltà di subentrare nel contratto di gestione della testata alle stesse condizioni già praticate con il precedente editore. Nell’ipotesi di sospensione protratta per oltre trenta giorni viene avviata la medesima procedura prevista nell’ipotesi di titolarità della testata da parte dell’impresa editrice.
La norma inoltre attribuisce alla cooperativa ed al consorzio il diritto a subentrare in tutti i contratti aventi ad oggetto immobili ed impianti utilizzati per l’attività di edizione della testata dal precedente editore e, comunque, per non meno di un anno. In realtà pur essendo ipotizzabile il trasferimento della testata senza contestuale trasferimento del relativo ramo di azienda riteniamo che in questa fattispecie sarebbe stato più semplice prevedere la successione in tutti i contratti come nella fattispecie, per l’appunto, di trasferimento di ramo di azienda.
Proprio partendo da questo regime nel corso di questi anni sono state introdotte una serie di norme a sostegno delle cooperative giornalistiche e dei consorzi. Ma mai realizzando l’obiettivo del legislatore che era quello di garantire, nei limiti dell’offerta più vantaggiosa, la continuità dei prodotti editoriali e dei corpi redazionali.
La prassi ha dimostrato che lo strumento introdotto dal legislatore, seppure teoricamente condivisibile, non ha garantito alcun risultato. Le ragioni sono diverse.
In primis le testate assorbono il valore immateriale della visibilità del prodotto e, pertanto, hanno un valore significativo. E’ pura teoria ipotizzare che i giornalisti dipendenti possano in novanta giorni, oltre che procedere a tutti gli adempimenti formali del caso[79], trovare le risorse per pagare un prezzo importante e dotarsi del circolante necessario ad affrontare la gestione corrente dell’impresa.
Inoltre, nella realtà italiana quasi sempre le testate sono di proprietà di soggetti diversi dall’impresa editrice. La continuità non esiste solo in relazione alla cessazione o alla sospensione delle pubblicazioni, ma va anche riferita alla linea editoriale che coinvolge direttamente la produzione di informazione e, quindi, la redazione. In questa prospettiva si crea una discriminazione a carico delle imprese e dei dipendenti, spesso tra l’altro costituiti sotto forma di cooperative per usufruire dei benefici di legge, che editano un giornale in virtù di un contratto di gestione. Non essendo previsto un termine minimo per i contratti di cessione in uso delle testate giornalistiche, la risoluzione del contratto per scadenza del termine rappresenta una mannaia sempre pronta a scattare, in assenza di ogni norma di salvaguardia a favore delle imprese conduttrici. In altri termini, mentre è attribuito un diritto di prelazione alle cooperative costituite dai dipendenti di società editrici che operano in virtù di un contratto di gestione, nell’ipotesi di risoluzione di quest’ultimo, non è prevista analoga tutela nell’ipotesi in cui la società conduttrice sia già costituita sotto forma di cooperativa giornalistica. E’ evidente che si tratta di situazioni analoghe che ricevono, a nostro avviso, una disparità di trattamento non giustificabile. Ciò va visto anche alla luce dell’assenza di un obbligo di trasparenza delle società proprietarie delle testate che, non essendo soggette ad alcuna limitazione sotto il profilo della legittimazione attiva, gestiscono i trasferimenti delle testate con operazioni a monte e non a valle. Nell’ambito di una riforma compiuta del settore dell’editoria un intervento in tal senso sarebbe quanto mai auspicabile.
La disciplina speciale delle imprese editoriali determina un particolare regime in ordine alla pubblicità dei bilanci.
L’art. 8 della legge n. 416 del 1981 prevedeva un regime derogatorio alla disciplina generale in relazione alla predisposizione dei bilanci di esercizio delle società editoriali e dei relativi adempimenti. La norma[80] dimostrava l’attenzione del legislatore al tema della trasparenza degli assetti e dei bilanci che dovevano essere sottoposti a certificazione e rispetto ai quali il revisore aveva l’obbligo di dichiarare i soggetti che, a qualsiasi titolo, fornivano la provvista finanziaria[81]. Il comma 46, lettera a dell’art. 1 della legge n. 650 del 23 dicembre 1996 ha esplicitamente abrogato l’art. 7 introducendo nuovi obblighi molto meno stringenti. Infatti, per effetto del comma 33 del medesimo articolo 1, le imprese editrici di quotidiani e di periodici con più di cinque dipendenti devono semplicemente pubblicare su tutte le testate edite entro il 31 agosto dell’esercizio successivo il bilancio di esercizio, corredandolo di dati extracontabili determinati dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
In aggiunta all’obbligo di pubblicità del bilancio la medesima legge n. 650 del 23 dicembre 1996 ha introdotto a carico delle imprese editrici una serie di obblighi di informativa di dati di natura contabile ed extracontabile all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni[82]; con i successivi numeri 5 e 6 della lettera a), comma 6 dell’art. 1 della legge n. 249 del 31 luglio 1997 è stato introdotto il Registro degli Operatori della Comunicazione che assolve a tutte le funzioni anagrafiche delle società, mentre le informazioni di natura contabile ed extracontabile rientrano nelle competenze ordinarie dell’Autorità.
Riteniamo doveroso segnalare che la modifica di una norma centrale della legge n. 416 del 1981 con un decreto legge è un’ulteriore conferma dell’assenza di organicità della legislazione degli ultimi anni. Se, infatti, le norme del 1981 erano inadeguate rispetto alla realtà industriale degli anni 90 l’intervento doveva, o meglio avrebbe dovuto avere, la struttura di una riforma dell’ordinamento. L’abolizione sic et sempliciter di un intero articolo con la contestuale introduzione di nuovi obblighi, privi di sistematica collocazione all’interno della disciplina di settore, derubrica, come di fatto è accaduto, l’intera disciplina del 1981. Non si è trattato, a nostro avviso, di un semplice processo di semplificazione ma di una sciatta gestione normativa del settore; caratteristica del legislatore degli ultimi anni, che non ha avuto il coraggio di riformare.
La prima norma antitrust è stata introdotta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 416 del 5 agosto 1981[83]. L’art. 4 della legge n. 416/81 è stato successivamente sostituito dall’art. 3 della legge n. 67 del 25 febbraio 1987. In vent’anni in materia di concentrazione l‘ordinamento italiano si è profondamente evoluto, attraverso leggi di carattere generale[84] e leggi di settore[85].
I profondi cambiamenti della comunicazione sono sotto gli occhi di tutti. E’ cambiata la tecnologia di diffusione dei contenuti, il formato degli stessi, replicabili e quindi distribuibili su tutte le piattaforme tecnologiche, il modello di business e le abitudini dei consumatori[86].
Ma se il mondo dell’informazione cambia velocemente, la regolamentazione lascia il passo; o meglio, l’applicazione delle norme esistenti non è in linea con le esigenze del mercato.
E’ significativo segnalare che la legge n. 416/81, proprio nella disciplina antitrust, si qualificò per la sua capacità innovativa. Infatti, la stessa legge introdusse nell’ordinamento italiano la prima figura di autorità di controllo e di garanzia dei meccanismi concorrenziali nello stesso[87] ed una prima disciplina compiuta in materia di concentrazione ed abuso di posizione dominante. La legge era rivolta, in un momento di crisi dell’intero settore e della predisposizione di strumenti di sostegno dello stesso, ad evitare che dalle operazioni di ristrutturazione delle aziende, e dalle probabili fusioni ed acquisizioni che le medesime ristrutturazioni avrebbero comportato, si venissero a formare posizioni dominati nel mercato[88] dell’informazione. Non vi è dubbio che la disciplina adottata ha rappresentato una forte innovazione per la legislazione italiana, essendo il presupposto storico della legge n. 287 del 10 ottobre 1990, che ha introdotto l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato[89].
Con riferimento diretto alla stampa, l’art. 3 della legge n. 67/87 prevede il divieto[90] per uno stesso soggetto di detenere, direttamente o indirettamente, il controllo di società editrici che editano quotidiani la cui tiratura ecceda il 20% della tiratura nazionale, ovvero il 50% della tiratura nell’ambito delle cinque aree interregionali (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Sud) individuate dalla legge. Inoltre, uno stesso soggetto non può detenere un numero di testate quotidiane superiore al cinquanta per cento di quelle edite nell’anno solare precedente ed aventi luogo di pubblicazione[91] nell’ambito di una stessa regione e sempre che vi sia una testata. Viene, inoltre, assimilata la posizione delle imprese che diventino titolari di collegamenti con società editrici di giornali quotidiani la cui tiratura sia stata superiore, nell’anno solare precedente, al 30 per cento della tiratura complessiva dei quotidiani in Italia[92].
Per quanto riguarda l’ipotesi di controllo congiunto di più soggetti riteniamo che le fattispecie ipotizzabili siano tanto varie da non consentire una classificazione delle stesse; segnaliamo, invece, che su questo punto, il Tribunale di Milano ha evidenziato, con la sentenza del 6 novembre 1986[93], che non sussiste una presunzione assoluta di controllo congiunto per il semplice consolidamento del bilancio nell’ipotesi in cui un’impresa rientrante nell’area di consolidamento detenga il controllo congiuntamente con un’altra impresa[94].
E’ evidente che, tra l’altro, la configurazione del controllo da parte di un soggetto di più imprese editoriali rileva non solo ai fini della normativa speciale in materia ma anche sotto i profili di diritto comune[95]. In realtà la norma tende ad individuare, attraverso fattispecie non solo formali ma anche sostanziali il soggetto che effettivamente esercita l’attività di controllo delle società editrice[96].
In riferimento alla crescita interna delle imprese il comma 9 dell’art. 3 della legge n. 67/87 prevede che: “l’impresa che, per espansione delle vendite o per nuove iniziative giunga a controllare società editrici che editino giornali quotidiani la cui tiratura superi un terzo delle copie complessivamente tirate dai giornali quotidiani in Italia, perde per l’anno solare successivo a quello in cui abbia superato tale limite il diritto a tutte le provvidenze ed agevolazioni di legge[97]”.
L’art. 3, comma 2 della legge n. 67 del 25 febbraio 1987, ai fini della configurazione dell’ipotesi di controllo, prevede che i rapporti individuati al comma 8 dell’articolo 1 della legge n. 416/81 sono rilevanti ai fini dell’individuazione della posizione di controllo, anche quando sono posti in essere nei confronti della società editrice da parte di società direttamente o indirettamente controllate. Inoltre, ai fini dell’ipotesi di collegamento, l’articolo in esame riconduce alla previsione di cui all’art. 2359, estendendo, tra l’altro, tale fattispecie anche all’ipotesi di collegamento attraverso società indirettamente controllate[98].
In realtà la portata innovativa dell’art. 3 della legge n. 67/87 è sostanziale; infatti i successivi commi quattro e cinque prevedono la nullità degli atti di cessione, dei contratti di affitto o affidamento in gestione di testate, nonchè il trasferimento tra vivi di azioni, partecipazioni o quote di società editrici nell’ipotesi in cui per effetto di questi atti un soggetto raggiunga una situazione di posizione dominante e l’annullamento nell’l’ipotesi in cui detta situazione venga raggiunta per fatti diversi da quelli precedentemente segnalati.
Il successivo comma 3 estese l’efficacia della norma anche al periodo anteriore, configurando le nuove norme quali interpretazioni autentiche delle disposizioni in materia di concentrazione previste dalla legge n. 416/81. Detto comma fu dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 155 del 4 aprile 1990[99].
La legge n. 223 del 6 agosto 1990, di riforma del settore radiotelevisivo, introdusse limiti e divieti rispetto al possesso incrociato di partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani ed imprese televisive nazionali. In altri termini, per le imprese che controllassero tre emittenti nazionali fu introdotto il divieto di controllare, anche indirettamente, imprese editrici di quotidiani e, simmetricamente, il divieto di acquisire partecipazione in imprese aventi una concessione televisiva nazionale a carico delle imprese editrici di quotidiani che avessero una tiratura superiore al 16% di quella nazionale. Inoltre, furono introdotte soglie intermedie nell’ipotesi di partecipazioni incrociate. In particolare, le imprese che editassero quotidiani con tiratura compresa tra l’8% ed il 16% di quella nazionale potevano controllare non più di un’emittente radiotelevisiva nazionale, mentre nell’ipotesi di tiratura sotto l’8% era possibile controllare fino a due emittenti nazionali. L’art. 15 della legge n. 223/90 è stato abrogato dall’art. 54 della D.lgs. n. 177 del 31 luglio 2005, rubricato testo unico della televisione. Infatti, il comma 12 dell’art. 43 del medesimo D.lgs., in attuazione dell’art. 15 della legge n. 112 del 3 maggio 2004, ha previsto che a far data dal 1 gennaio 2011 i soggetti che esercitano l’attività televisiva in ambito nazionale attraverso più di una rete potranno acquisire partecipazioni o partecipare alla costituzione di nuove imprese editrici di giornali quotidiani.
Come visto, ad eccezione delle partecipazioni incrociate, le norme antitrust in materia di editoria, introdotte nel lontano 1981, e modificate nel 1987, sono rimaste immutate. Anche se vanno, evidentemente, lette unitamente alla disciplina in materia di concentrazione relativa al settore delle comunicazioni. L’enorme attenzione mediatica e politica al mercato dell’audiovisivo e delle telecomunicazioni ha totalmente emarginato il dibattito in tema di editoria e di contenuti.
Ripercorrere la vicenda della legge n. 223/90 e della legge n. 249/97, entrambe dichiarate incostituzionali per la parte relativa alla prosecuzione delle concessioni nazionali a favore della Rai e della Fininvest esula dalle finalità del presente lavoro[100].
I limiti attuali nel settore della comunicazione sono fissati dall’art. 15 della legge n. 112 del 3 maggio 2001.
L’art. 15 della legge, ricalcando la traccia segnata dalle precedenti norme in materia di concorrenza nel settore dell’audiovisivo, presupponeva, a breve, la trasformazione del mercato a seguito dei cambiamenti tecnologici; in particolare, l’avvento del digitale terrestre veniva considerato l’elemento di innovazione ed il fattore di garanzia, attesa la moltiplicazione dei canali resi disponibili dai nuovi sistemi di distribuzione dei segnali. Ciononostante, la riproposta di un regime transitorio, ossia il periodo fino alla data di switch off dei ripetitori alla nuova tecnologia digitale, rischierebbe di essere investito da una nuova sentenza di incostituzionalità da parte della Corte, laddove non letto organicamente ed unitamente alla nuova disciplina[101].
Comunque, in questa fase ci dobbiamo limitare a verificare l’incidenza della legge n. 112 rispetto al mercato dell’editoria a mezzo stampa.
Il secondo comma dell’art. 15 introduce un limite alla raccolta delle risorse e prevede che le imprese obbligate all’iscrizione al Registro degli operatori della comunicazione[102] non possano conseguire ricavi superiori al 20 per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni[103]. I ricavi medesimi sono definiti al successivo comma 3[104]. E’ evidente che il nuovo limite è calcolato su un valore, che è proprio quello dell’intero sistema integrato delle comunicazioni, molto più ampio del precedente e che, pertanto, vengono concessi importanti margini di espansione alle imprese che, con la previgente disciplina ed in costanza della stessa, violavano i limiti preesistenti.
Il quarto comma dell’articolo 15 prevede che le imprese che operano nel mercato delle telecomunicazioni ed i cui ricavi siano superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore non possano conseguire ricavi superiori al 10% del valore dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni, introducendo una regolamentazione asimmetria settoriale e prefigurando una situazione di vantaggio competitivo del maggiore operatore di telecomunicazioni, da bilanciare attraverso un più stringente limite antitrust. La norma parte, quindi, dalla premessa che una situazione di posizione dominante generata all’interno di un settore possa generare squilibri concorrenziali nell’intero sistema integrato delle comunicazioni; ed, ancora, prequalifica il settore delle tlc come il mercato dove si possono creare maggiori opportunità di vantaggio competitivo da utilizzare nell’aggressione di altri sub- mercati che rientrano nella più ampia definizione di sistema integrato delle comunicazioni.
Il comma 6 prevede, a carico dei soggetti che esercitano l’attività televisiva in ambito nazionale attraverso più di una rete, il divieto, fino al 31 dicembre 2010, di acquisire quote di partecipazione o di costituire imprese editrici di giornali quotidiani. Si noti la previsione di due norme di carattere asimmetrico volte a ripristinare una situazione di concorrenzialità tra imprese operanti in settori rilevati, ex ante, di diversa consistenza.
L’art. 15 che introduce, quindi, il sistema integrato delle comunicazioni apre spazi di crescita a tutte le imprese che operano all’interno del sistema. Spazi di crescita che potrebbero portare alla costituzione di posizioni di maggiore forza rispetto alla situazione attuale.
Ed è quanto sostenuto da chi vede nella legge n. 112 del 3 maggio 2004[105] il presupposto della compressione del grado di pluralismo nel Paese[106]. Ma in realtà il secondo comma dell’art. 15 prevede testualmente che la nuova normativa si applica “fermo restando il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni”. A nostro avviso siamo nel cuore della nuova disciplina e, con questa disposizione il legislatore ha predisposto lo strumento di controllo effettivo del mercato. Il sistema integrato delle comunicazioni potrebbe essere definito come un macrosettore su cui, ricorrendo proprio a strumenti derivati dalla teoria dei sistemi, vari sub sistemi operano, generando input ed output differenti. Da tale angolo visuale si legge la necessità di controllare che non siano i sub settori a determinare sul sistema complessivo problemi distorsivi.
Nel merito lo strumento è offerto sia dalla previsione del divieto di costituire posizioni dominanti nei singoli mercati del sistema integrato delle comunicazioni che dall’art. 14 che disciplina nello specifico le modalità di accertamento della sussistenza di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni. Il carattere sintetico del presente lavoro non ci consente di approfondire le procedure di accertamento. Ciononostante, occorre fare un cenno alla previsione del secondo comma dell’articolo 14 che prevede testualmente che: “L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, su segnalazione di chi ne abbia interesse o, periodicamente, d’ufficio, individuato il mercato rilevante conformemente ai principi di cui agli articoli 15 e 16 della direttiva 2002/21/CE, verifica che non si costituiscano, nel sistema integrato delle comunicazioni e nei mercati che lo compongono[107], posizioni dominanti e che siano rispettati i limiti di cui all’articolo 15 della presente legge, tenendo conto, fra l’altro, oltre che dei ricavi, del livello di concorrenza all’interno del sistema, delle barriere all’ingresso nello stesso, delle dimensioni di efficienza economica dell’impresa nonché degli indici quantitativi di diffusione dei programmi radiotelevisivi, dei prodotti editoriali e delle opere cinematografiche e fonografiche”. La norma, a differenza dell’articolo 15, non è condizionata all’attuazione della transazione al digitale e, pertanto, è immediatamente efficace. Si tratta, quindi, di una disposizione flessibile e dinamica che fornisce all’Autorità uno strumento valido e di immediata disponibilità per garantire, in uno, il pluralismo e la concorrenza.
In conclusione, con la nuova disciplina, l’impatto del sub settore delle telecomunicazioni e dell’intera industria dell’audiovisivo consente alle due imprese oligopoliste del mercato dell’audiovisivo, di fatto con una norma ex post, di detenere quote di mercato legittime. Ma soccorre l’art. 14 della legge che obbliga l’Autorità di rimuovere le stesse posizioni dominanti che sono, pacificamente, formate all’interno del mercato dell’audiovisivo che compone il sistema integrato delle comunicazioni. E lo fa da subito, senza periodi transitori o rimandi.
Evidentemente distonico con l’attuale impianto è il limite antitrust per l’editoria, basato sulle tirature, che sembra una bandiera di vetustà piantato sulla disciplina della stampa.
La domanda dalla quale eravamo partiti riguardava l’esistenza o meno di uno statuto speciale dell’impresa editoriale.
A nostro avviso la risposta deve essere positiva. Le norme speciali sono tali da derogare la disciplina di diritto comune su molti aspetti. La principale peculiarità è l’obbligo di rendere trasparenti gli assetti societari entro il terzo livello della catena partecipativa. Ma la presenza di stringenti obblighi informativi, la disciplina antitrust, la disciplina delle cooperative giornalistiche danno sostanza alla nostra posizione.
Nel corso della riforma Levi, ed in particolare modo nel periodo della audizioni, da più parti si chiedeva l’adozione di un nuovo statuto dell’impresa editoriale. In particolare, il punto fu focalizzato sulla partecipazione del corpo redazionale alla gestione dell’impresa, attraverso quote riservate all’interno degli organi sociali.
In realtà, fatta eccezione per le cooperative, l’esistenza di uno statuto speciale non presuppone una partecipazione dei dipendenti alle scelte imprenditoriali. Sicuramente esiste uno statuto degli istituti di credito. Ma mai nessuno ha sostenuto che i dipendenti delle banche debbano entrare nei consigli di amministrazione.
In questa prospettiva, segnaliamo, anzi, che le norme che regolamentano l’impresa editoriale a mezzo stampa sono molto più stringenti rispetto a quelle che disciplinano l’emittenza radiotelevisiva, le telecomunicazioni, gli operatori di rete ed i fornitori di contenuti. Nonostante buona parte di queste ultime utilizzino risorse scarse, quali le frequenze e la numerazione. Da una prima lettura appare ben difficile quali siano le ragioni di questa asimmetria che, alla fine, penalizza, sotto il profilo della libertà imprenditoriale, i soggetti che operano nel settore più debole, l’editoria a mezzo stampa.
L’ipotesi di aumentare il livello di deroghe rispetto alla libertà d’iniziativa, a nostro avviso, non ha ragion d’essere. La partecipazione dei dipendenti, per quanto professionisti, alla gestione dell’impresa avrebbe la natura di un’espropriazione dei diritti amministrativi del socio. E’ evidente, invece, che la garanzia dell’autonomia del giornalista trova la propria tutela sia nella disciplina giuslavoristica che nelle norme di deontologia professionale. Ma è un’altra cosa.
Discorso diverso va fatto nell’ipotesi in cui la peculiarità dell’impresa editoriale è presupposto per l’accesso ai contributi. Ed allora la scelta alla base dell’iniziativa è quella di chiedere allo Stato una forma di tutela in ragione delle peculiarità del prodotto edito. Ma se si chiede bisogna essere disponibili a concedere. Ed allora se, come riteniamo, il contributo all’industria editoriale è un contributo al pluralismo che deve esulare dalle logiche di mercato, delle limitazioni alla libertà d’impresa, correlate alla peculiarità del prodotto ed all’esistenza di un intervento dello Stato, devono essere considerate ammissibili.
[1] Il disegno di legge Levi è stato approvato dal Consiglio dei Ministri in data 12 ottobre 2007 ed è allo stato in discussione presso la VII Commissione Cultura della Camera. Il testo presentato dal Governo non sarà oggetto di valutazione nel presente lavoro in quanto abbiamo preferito concentrarci sulla legislazione vigente e non su quella futura ed eventuale.
[2] Sull’argomento R. Zaccaria, A.Valastro, Appunti per una riforma della legge sull’editoria, in Diritto dell’informatica e della informazione, Giuffrè,1997, pgg.7 e ss.
[3] Modificato dall’art. 2 della legge n. 62 del 7 marzo 2001.
[4] Ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, le società in accomandita semplice devono essere in ogni caso costituite solo da persone fisiche. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 5636 del 17 ottobre 1988 ritenne che la norma in oggetto, atteso il divieto generale di partecipazione di società di capitali in società di persone, non esprimeva un’eccezione ad una norma generale di segno opposto, ma integrava un’applicazione confermativa di un principio. Vedi, Giust. civ. Mass. 1988, fasc. 10; Foro it. 1988, I,3248; Riv. notariato 1988, fasc. 5; Dir. e giur. 1989, 514. E’ evidente che il novellato art. 2361 del cod. civ. che consente la partecipazione di società di capitali in società di persone determina l’esigenza di leggere la norma da un angolo visuale completamente diverso. Sotto il profilo formale riteniamo che trattandosi di norma speciale quest’ultima deroghi il principio generale, pur consapevoli che sotto il profilo sostanziale, non consentire l’esercizio dell’impresa editoriale a società in accomandita semplice partecipate da società di capitali (è evidente che analogo divieto non può essere posto a carico delle società in nome collettivo) non ha ragione d’essere. Tale lettura è suffragata anche dalla successione temporale delle norme. Sulla pacifica legittimazione della partecipazione di società di capitali in società di persone, anche prima delle relativamente recenti modifiche del diritto societario, la dottrina è vastissima. Tra gli altri segnaliamo: V. Donativi, in (a cura di) V. Santoro e M. Sandulli, La riforma delle società, Utet, Torino, 2003, sub. 2361, pgg. 222 e ss.; R. Weigmann, Luci ed ombre del nuovo diritto azionario, in Le società, 2003, pgg. 271 e ss.; R. Weigmann, La società in accomandita semplice, in (a cura di Gustavo Cottino), Trattato di diritto commerciale, III, Società di persone e consorzi, Padova, 2004, pgg. 235 e ss.; Luci ed ombre del nuovo diritto azionario, in Le società, 2003, pgg. 271 e ss. In relazione alla partecipazione di società a responsabilità limitata in società di persone, segnaliamo la sentenza della Corte di Appello di Torino del 30 luglio 2007 che, in relazione alla mancata previsione puntule di questa fattispecie, prevede l’applicazione analogica di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 2361 del codice civile. Sulla’rgomento vedi, G. Irrera, Un primo no all’ipotesi di società di fatto tra società di capitali, in Il nuovo diritto delle società, 2007, V, 59 e G. Cottino, Note minime su società di capitali (presunta) socia di società di persone e fallimento, in Giur. It., 2219, 2007.
[5] Infatti solo i consorzi e le mutue assicuratrici sembrano essere esclusi dalla legittimazione attiva all’esercizio dell’attività di edizione di quotidiani. In realtà, come poi si vedrà il successive art. 6 ricomprende tra i soggetti legittimati all’esercizio di detta attività anche i consorzi costituiti da società di giornalisti e società di poligrafici.
[6] Sul processo di privatizzazione dell’industria della comunicazione vedi: V. Ghionni, Lo statuto dell’impresa di comunicazione, in (a cura di) Astolfo di Amato, Appunti di diritto dei mezzi di comunicazione, ESI, 2006, pgg. 58 e ss.
[7] L’informazione di matrice anglosassone ha, di contro, sempre visto nell’iniziativa privata l’origine delle maggiori iniziative editoriali, educandosi con il tempo ad un sistema assolutamente diverso di informazione premiato dai risultati che i giornali ottengono in quei paesi in termine di indici di lettura. Sull’argomento si veda Jean-Noel Jeanneney, Storia dei media, Editori Riuniti, 1996; A. Varni (a cura di), Storia della comunicazione in Italia: dalle Gazzette ad Internet, Il Mulino, 2002; Asa Briggs, Peter Burke, Storia sociale dei media, da Gutenberg ad Internet, Il Mulino, 2002.
[8] Il testo unico della radiotelevisione è stato emanato con il D. Lsg. n. 177 del 31 luglio 2005. In particolare, in questa sede ci riferiamo all’art. 5, comma 1, lettera b, laddove è previsto che: “fatto salvo quanto previsto per la società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, le amministrazioni pubbliche, gli enti pubblici, anche economici, le società a prevalente partecipazione pubblica e le aziende ed istituti di credito non possono, nè direttamente nè indirettamente, essere titolari di titoli abilitativi per lo svolgimento delle attività di operatore di rete o di fornitore di contenuti”.
[9] Generata in particolare dai cambiamenti tecnologici e dalla necessità di intervenire con ingenti investimenti sui sistemi di stampa e di riconvertire sia i giornalisti che i poligrafici alle nuove modalità di lavorazione del prodotto editoriale.
[10] Vedi G. Minervini, La trasparenza della titolarità e delle fonti di finanziamento nelle società editrici, Giur. comm., 1985, I, 353.
[11] La possibilità per le società a prevalente partecipazione pubblica deriva dal fatto che al momento di emanazione della legge molti quotidiani erano controllati da questo tipo di società. Il divieto, di cui si è detto, si riferiva a nuove partecipazioni ed intraprese ma non imponeva la cessione delle partecipazioni esistenti alla data, in quanto, in questa ipotesi, si sarebbe compromessa l’esistenza di diverse realtà editoriali. In tale prospettiva, il comma 5, che aveva, evidentemente, natura transitoria e residuale, prevede che: “Le azioni o quote di società editrici intestate a soggetti diversi da quelli di cui ai due commi precedenti da data anteriore all’entrata in vigore della presente legge ed il cui valore sia inferiore alla metà di quelle aventi diritto di voto nelle assemblee ordinarie ai sensi dell’articolo 2368 del codice civile, possono rimanere intestate a tali soggetti a condizione che: a) sia assicurata, attraverso comunicazioni al Servizio dell’editoria, la conoscenza della proprietà diretta o indiretta di tali azioni o quote, in modo da consentire di individuare le persone fisiche o le società per azioni quotate in borsa o gli enti morali che direttamente o indirettamente ne detengono la proprietà o il controllo; b) sia data dimostrazione, da parte del legale rappresentante della società che esercita la impresa editrice, di aver provveduto a notificare ai loro titolari l’interdizione dal diritto di voto nelle assemblee sociali, ordinarie e straordinarie, della società stessa e di aver provveduto nelle forme prescritte ad informare di tale interdizione tutti i soci; c) rimanga immutato l’assetto proprietario di cui alla lettera a) del presente comma, salvo che ricorra l’ipotesi di cui al precedente quarto comma”. Inoltre, il comma 11 del medesimo art. 1 prevede che l’obbligo di informazione immediata all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del possesso, pervenuto a qualsiasi titolo, di azioni o quote di società editrici di giornali quotidiani. Nel termine “qualsiasi titolo” vi è il carattere residuale ed eventuale di questa fattispecie.
[12] Il concetto di controllo è definito ai sensi dell’art. 2359 del cod. civ. e dell’ottavo comma dell’art. 1 della legge n. 416/81 che prevede una posizione dominante laddove rapporti di carattere organizzativo o finanziario consentano: a) la comunicazione degli utili o delle perdite; ovvero b) il coordinamento della gestione dell’impresa editrice con quella di altre imprese ai fini del perseguimento di uno scopo comune o ai fini di limitare la concorrenza tra le imprese; ovvero c) una distribuzione degli utili o delle perdite diversa, quanto ai soggetti o alla misura, da quella che sarebbe avvenuta in assenza dei rapporti stessi; ovvero d) l’attribuzione di poteri maggiori rispetto a quelli derivanti dal numero delle azioni o delle quote possedute; ovvero e) l’attribuzione a soggetti diversi da quelli legittimati in base all’assetto proprietario di poteri nella scelta degli amministratori o dei dirigenti delle imprese editrici nonché dei direttori delle imprese editrici. Sottolineiamo che la presunzione di un rapporto di controllo nell’ipotesi di nomina del direttore, che evidentemente, presuppone un condizionamento sulla linea editoriale rappresenta un punto qualificante della normativa, giustificando la specialità di questa disciplina. Infatti, la previsione delle norma è riferita a fattori dinamici che consentono, ma purtroppo dobbiamo dire avrebbero consentito, all’Autorità di effettuare le dovute indagini utilizzando ampi spazi di manovra e di intervento. Sul concetto di controllo torneremo diffusamente nel successivo paragrafo in materia di normativa antitrust.
[13] Occorre, inoltre, evidenziare che esiste una anomala differenza tra il regime delle imprese che operano nel settore dell’audiovisivo e quello delle imprese editoriali. Infatti, pur essendovi una sostanziale identità di obiettivi in termini di trasparenza, mentre per le prime l’obbligo è quello di fornire solo l’elenco soci fino all’individuazione delle persone fisiche di riferimento, per le seconde la presenza di persone fisiche entro il secondo livello è condizione per la legittimazione all’esercizio dell’attività.
[14] Tale interpretazione era suffragata dall’articolo 6, comma 2 del D.p.R. 268 del 27 aprile 1982, abrogato dal n. 6, del comma 6 dell’articolo 1 della legge n. 249 del 31 luglio 1997.
[15] Sull’argomento vedi U. Patroni Griffi, I gruppi nella legge sull’editoria, Riv. Dir dell’impresa, 1993, II, pgg. 27 e ss.
[16] Il riferimento è, evidentemente, alle fondazioni.
[17] La previsione è stata estesa anche alle imprese che operano nel settore dell’audiovisivo dall’articolo n.11-ter del D.P.R. n. 323 del 27 agosto 1993.
[18] Riteniamo che tale divieto debba intendersi limitato letteralmente all’intestazione fiduciaria della maggioranza delle quote, in quanto il successivo comma 8 del medesimo articolo prevede a carico delle persone fisiche e delle società che controllano, anche per interposta persona o attraverso intestazioni fiduciarie delle quote un obbligo specifico di comunicazione, legittimando tale fattispecie.
[19] Art. 1, comma 6 della legge 416 del 5 agosto 1981.
[20] In tal caso, i partiti politici o le associazioni sindacali devono depositare presso il Registro degli Operatori della Comunicazione la documentazione inerente le delibere concernenti l’intestazione fiduciaria, accompagnata dalla dichiarazione di accettazione rilasciata dai soggetti nei cui confronti l’intestazione stessa viene effettuata.
[21] Questa norma è stata introdotta dall’art. 2 della legge n. 62 del 7 marzo 2001. Precedentemente, l’intestazione delle azioni o delle quote di società editoriali a società estere, anche facenti parte dell’Unione, era vietata con un’evidente violazione del principio comunitario di libertà di stabilimento.
[22] E’ evidente, infatti, che è pienamente legittima la fattispecie in cui non vi è coincidenza tra il proprietario della testata ed il soggetto che svolge l’attività di edizione della stessa, in virtù di contratto. Infatti, l’art. 4 della legge n. 47 del 08 febbraio 1948 prevede che i medesimi requisiti richiesti per la registrazione della testata da parte del proprietario devono essere posseduti anche dal soggetto che esercita l’impresa giornalistica, se diverso, per l’appunto dal proprietario.
[23] Il terzo comma dell’art. 1 della stessa legge, comunque, prevede il divieto di trasferimento delle azioni per semplice girata, introducendo, quindi, un vincolo primario alla circolazione dei titoli partecipativi.
[24] Limite fissato al 2 per cento nell’ipotesi di azioni di società quotate in Borsa.
[25] La formulazione originaria prevedeva l’obbligo di comunicazione al servizio editoria, soppresso, e le cui attribuzioni sono state assorbite, dopo una serie di passaggi intermedi, dall’Autorità. Le formalità per le comunicazioni sono contenute nel Regolamento per l’organizzazione e la tenuta del registro degli operatori della comunicazione,adottato dall’Autorità con la delibera n. 236/01/CONS.
[26] La portata della norma è limitata in quanto produce effetti sono nell’ipotesi in cui l’acquirente o il venditore sia una società editoriale. In tale direzione (a cura di) F. Bruno e U. Troiani, Editoria radio e televisione, nota n. 3 all’articolo 2, pg. 6.
[27] Il Tribunale di Milano, con la sentenza del 28 marzo 1990, avente ad oggetto la cessione del pacchetto di maggioranza della Mondatori, ritenne che la previsione da parte del legislatore della trasparenza dei sindacati di voto non rappresentava un riconoscimento nell’ordinamento di tali ipotesi, in quanto associabili alle associazioni segrete all’interno di associazioni palesi, vietate dall’art. 18 della Costituzione e dall’art. 1 della legge n. 17 del 25 gennaio 1982. E pertanto i sindacati acquisivano legittimità solo con la pubblicità.
[28] Giurisprudenza commerciale, 1986, II, pgg. 593 e ss. La sentenza assume particolare rilevanza sia per i convenuti (Garante dell’editoria e Corriere della Sera) sia perché è uno dei primi casi nel nostro ordinamento di contenzioso civile tra un’Autorità ed un’impresa.
[29] Nell’ipotesi di specie l’operazione di compravendita determinava l’assunzione di una posizione dominante da parte dell’acquirente.
[30] La sentenza prevedeva anche che questo impegno dovesse essere formalizzato attraverso la trascrizione dell’inibizione del diritto di voto nel libro soci e nel libro delle assemblee delle due società partecipanti all’operazione.
[31] Ci riferiamo, a titolo esemplificativo, all’ipotesi di aumento del capitale o di fusione.
[32] Giurisprudenza italiana, 1992, I, 2, pgg. 94 e ss.
[33] Sembra applicabile, per analogia, quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 2343 del cod. civ., nell’ipotesi di valore inferiore del conferimento di oltre un quinto rispetto a quanto deliberato. E’ evidente che siamo in presenza di una fattispecie completamente diversa ma la ratio della norma sembra rispondente a quella dell’ipotesi fatta.
[34] In tale direzione il comma 1 dell’art. 1 della legge n. 416 del 05 agosto 1981.
[35] La definizione di editore puro rappresenta un gioco lessicale, perlomeno, rischioso.
[36] Ci riferiamo, evidentemente, alla presenza, tipica in Italia, di società editoriali controllate da imprenditori con interessi prevalenti in altri settori, cui l’attività editoriale può consentire utilità individuali tali da ledere il carattere di terzietà ed interesse al lettore che dovrebbero rappresentare l’elemento tipico di un’impresa di informazione a mezzo stampa.
[37] In tale direzione la giurisprudenza ha avuto costante un atteggiamento restrittivo, a nostro avviso condivisibile. Vedi la sentenza del Tribunale di Napoli del 27 ottobre 1994, in Società, 1995, con nota di Vidiri, pgg. 668 e ss, con la quale lo stesso stabiliva che: “l’oggetto sociale delle imprese editrici di giornali quotidiani deve essere esclusivamente indirizzato alla stampa di giornali quotidiani o al conseguimento di scopi a quella strettamente connessi”. Parallelamente l’Ufficio del Garante per l’editoria non provvedeva all’iscrizione nel Registro Nazionale della Stampa che non avessero oggetto sociale esclusivo.
[38] Logica diversa assume, nel settore dell’emittenza radiotelevisiva, il divieto di rilascio di autorizzazione alla fornitura di contenuti a carico delle società che non abbiano per oggetto sociale l’esercizio dell’attività radiotelevisiva, prevista dall’art. 5 del decreto legislativo n. 177 del 31 luglio 2005. In questo caso, infatti siamo in presenza di un regime giuridico di natura amministrativo. Sul regime delle autorizzazioni e delle licenze vedi: V. Ghionni, L’impresa di comunicazione, in (a cura di) Astolfo Di Amato, Appunti di diritto dei mezzi di comunicazione, Esi, 2006, pgg. 68 e ss.
[39] In questa direzione G. Ferri Jr. e M. Stella Richter, L’oggetto sociale statutario, in Giust. Civ., 2002, 11, 483.
[40] G. Campobasso, Diritto commerciale, Diritto delle società, Utet, 2004, pg. 156.
[41] Art. 2332 del cod. civ.
[42] Il diritto di recesso del socio nell’ipotesi di cambiamento dell’oggetto sociale previsto dall’art. 2437 del cod. civ. garantisce, per l’appunto, il socio di minoranza nell’ipotesi di modifica dell’ambito di attività della società.
[43] In tale direzione, infatti, sono andate sia la legge n. 67 del 1987 che la legge n. 250 del 1990, ulteriormente modificata ed integrata nel corso di questi ultimi anni.
[44] Il sistema a piombo era, in pratica, quello messo a punto da Gutenberg, oltre cinquecento anni fa.
[45] La disciplina specifica bell’ipotesi di cessazione di pubblicazione verrà affrontata nel prossimo paragrafo.
[46] Il comma 458 dell’art. 1 della legge n. 266 del 23 dicembre 2005, ha previsto, come condizione per l’accesso ai contributi, che le cooperative editrici devono essere composte esclusivamente da giornalisti professionisti, pubblicisti o poligrafici. Il mancato riferimento alle cooperative giornalistiche, come disciplinate dall’art. 6 della legge n. 416 del 1981, rappresenta una testimonianza della sciatteria con cui il legislatore si è mosso negli ultimi anni, creando problemi applicativi e situazioni di continua incertezza giuridica. Ma sull’argomento torneremo ampiamente in seguito, in particolare nel capitolo dedicato al sistema di sostegno.
[47] La formulazione originaria prevedeva, chiaramente, l’iscrizione al registro prefettizio previsto dal d.lgs. n. 1577 del 26 dicembre 1947. In realtà le disposizioni di attuazioni nulla dicono in merito alla sorte sia dei registri prefettizi che dello schedario generale della cooperazione le cui funzioni riteniamo assorbite dal nuovo albo delle società cooperative. Sull’argomento vedi: E. Tonelli, in Società cooperative, in (a cura di) M. Sandulli e V. Santoro, La Riforma delle società, vol. IV, Giappichelli editore, Torino, 2003, pgg. 23 e ss. A. Bassi, Le società cooperative, Utet, Torino, 1995. Infatti, l’albo assicura il controllo da parte dell’autorità governativa e, al contempo, la funzione pubblicitaria assolta fino all’entrata in vigore dell’art. 29 della legge n. 266 del 1997 ulteriormente dal Bollettino Ufficiale delle società cooperative.
[48] Si configura, a nostro avviso, l’ipotesi di un controllo ulteriore sulla gestione, rispetto alla vigilanza delegata al Ministero delle attività produttive, come previsto dall’art. 2545-quatordicies del cod. civ.
[49] Si configura, a nostro avviso, l’ipotesi di un controllo ulteriore sulla gestione, rispetto alla vigilanza delegata al Ministero delle attività produttive, come previsto dall’art. 2545-quatordicies del cod. civ.
[50] Procedimento che, a sua volta, si perfeziona con l’ammissione annuale della società a contributo.
[51] Riteniamo che la cooperativa di giornalisti socia del consorzio debba rispondere, comunque, ai requisiti soggettivi previsti dall’art. 6, pur in presenza di una differenza letterale tra cooperativa di giornalisti e cooperativa giornalistica. Infatti, le norme in materia di cooperative giornalistiche tendono ad assicurare la reale partecipazione dei giornalisti all’attività editoriale. La ratio del consorzio non può che essere la medesima e, pertanto, la disciplina di merito deve ricadere anche sulla cooperativa partecipante.
[52] In particolare occorre tener conto della legge n. 59 del 31 gennaio 1992, recante Nuove norme in materia di società cooperative e della riforma generale del diritto societario, introdotta dal d. lgs. N. 6 del 17 gennaio 2003.
[53] L’articolo 26 prevedeva che: “Agli effetti tributari si presume la sussistenza dei requisiti mutualistici quando negli statuti delle cooperative siano contenute le seguenti clausole: a) divieto di distribuzione dei dividendi superiori alla ragione dell’interesse legale ragguagliato al capitale effettivamente versato; b) divieto di distribuzione delle riserve tra i soci durante la vita sociale; c) devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale versato ed i dividendi eventualmente maturati, a scopo di pubblica utilità conformi alla spirito mutualistico.”
[54] Infatti, l’art. 2514 del cod. civ. prevede che: “Le cooperative a mutualità prevalente devono prevedere nei propri statuti: a) il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo, rispetto al capitale effettivamente versato; b) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi; c) il divieto di distribuire le riserve tra i soci cooperatori; d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale ed i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Le cooperative deliberano l’introduzione e la soppressione delle clausole di cui al comma precedente con le maggioranze previste per l’assemblea straordinaria”.
[55] L’art. 2512 del cod. civ. prevede che sono società a mutualità prevalente quelle che: “a) svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi; si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci; c) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci”.
[56] Ciò anche per i notevoli benefici di cui sono destinatarie questo tipo di società.
[57] Distinzione introdotta dall’art. 13 del d.Lgs. n. 1577 del 14 dicembre 1947.
[58] La competenza è stata trasferita dal Ministero del lavoro al Ministero delle attività produttive a cui sono state attribuite, dal primo comma dell’art. 223-sexiesdecies delle disposizioni transitorie del d.Lgs. n. 6 del 17 gennaio 20033, le competenze per la predisposizione e la tenuta dell’Albo delle società cooperative.
[59] A seguito della riforma non è più prevista la cancellazione dall’Albo prefettizio, ma, invece, il passaggio alla sezione residuale delle cooperative prive del requisito della mutualità prevalente e, pertanto, escluse dalle agevolazioni di natura tributaria.
[60] In questa prospettiva la Sentenza della sezione tributaria della Corte di Cassazione n. 10544, su Diritto e Pratica delle Società, n. 17/2006, pgg. 78 e ss. con nota di E. Fossa. statuisce che il controllo sulla natura della cooperativa debba essere più sostanziale che formale. Infatti, secondo la Cassazione la conformità degli statuti delle cooperative ai principi legislativi in tema di mutualità comporta una presunzione di spettanza delle agevolazioni ed esenzioni di natura relativa; presunzione che viene superata nell’ipotesi in cui in sede di accertamento emerga che la veste mutualistica funga da copertura ad una normale attività imprenditoriale.
[61] Ai dirigenti delle imprese editoriali non si applica il contratto nazionale di lavoro dei poligrafici e per tale ragione gli stessi non possono essere considerati poligrafici.
[62] I giornalisti praticanti non sono iscritti all’albo dei giornalisti ma vengono registrati in una sezione tenuta dai Consigli territorialmente competenti. Ma è evidente che escludere la partecipazione di questi dalle imprese editoriali rappresenta una violazione del principio generale di non discriminazione, costituzionalmente garantito.
[63] La qualifica di poligrafico è condizionata all’assunzione da parte di imprese editrici di giornali quotidiani, mentre i dipendenti di imprese editrici di periodici sono qualificati come grafici editoriali, sulla base di una distinzione operata dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
[64] Disponibile sul sito del Dipartimento informazione ed editoria:
http://www.palazzochigi.it/Presidenza/DIE/testi_norme/circolare_%207marzo.pdf.
[65] L’art. 2527 del cod. civ., a seguito della riforma, introduce in via generale questo principio a tutte le cooperative, abbandonando le distinzioni per settori economici abituali prima della riforma. V. Enrico Tonelli, op. cit., pg. 14. A titolo esemplificativo citiamo l’art. 23 del d.Lgs. n. 1577 del 14 dicembre 1947, il R.D. n. 278 del 12 febbraio 1911 in tema di cooperative ammissibili ai pubblici appalti. Sull’argomenti vedi: Bonocore, Diritto della cooperazione, pgg. 166 e ss; Bassi, Le società cooperative, pgg. 107 e ss.; Bonfante, Delle imprese cooperative.
[66] E’ evidente che i soci hanno, liberamente, scelto di assoggettarsi ad una disciplina speciale ed ad una consequenziale limitazione dell’autonomia contrattuale per accedere a dei benefici di legge.
[67] In caso di cooperative di lavoratori, le stesse devono associare almeno il cinquanta per cento dei lavoratori aventi contratto a tempo pieno con la cooperativa ed i relativi statuti devono consentire la partecipazione dei lavoratori in possesso delle stesse caratteristiche.
[68] Intendiamo che, in assenza della presenza di questo requisito, la società non è da qualificarsi, per il relativo periodo come cooperativa giornalistica, con gli evidenti effetti sotto il profilo dei benefici.
[69] Da un punto di vista generale l’art. 2538 del cod. civ. prevede che: “ciascun socio cooperatore ha un voto, qualunque, sia il valore delle quote o il numero di azioni possedute”.
[70] Non sono chiare le ragioni per cui la norma trova applicazione solo in ragione della periodicità e non anche, come sarebbe più logico, in ragione delle dimensioni dell’impresa.
[71] La norma originaria prevedeva che detta comunicazione andasse effettuata al servizio dell’editoria, le cui funzioni sono state assorbite dall’autorità dopo una serie di passaggi intermedi.
[72] Così testualmente il comma 4 dell’articolo in commento.
[73] Vedi Giurisprudenza italiana. 1985, I, 2, pgg. 305 e ss. e diritto dell’informatica, 1986, pgg. 478 e seguenti.
[74] Nel caso di specie, il quotidiano “Roma” di Napoli, appartenente alle imprese facenti capo all’armatore Lauro.
[75] L’impresa era stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria ai sensi dell’art. 3 della legge n. 95 del 1979, ora abrogato per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 109 del D. Lgs. n. 270 del 8 luglio 1999.
[76] Nella fattispecie, emanato con provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c., prima della decisione di merito.
[77] Con la sentenza in oggetto fu pure escluso un difetto temporaneo di giurisdizione, sul rilievo che la domanda della cooperativa non rientra tra quelle che si possono far valere, trattandosi di impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria, con l’opposizione allo stato passivo, ex art. 209 l. fall.
[78] Programmi che devono essere preventivamente concordati con le associazioni sindacali di categoria.
[79] Basti pensare che nel 1981 molti Tribunali impiegavano per il procedimento di omologazione delle società oltre due mesi.
[80] Ci riferiamo all’art. 7 della legge n. 416/81, successivamente abrogato dall’art. 1 del D.l. n. 545 del 23 ottobre 1996, convertito con la legge n. 650 del 23 dicembre 1996.
[81] L’obbligo di certificare i bilanci è rimasto solo a carico delle imprese editrici che richiedono di accedere ai contributi previsti dalla legge n. 250 del 7 agosto 1990.
[82] Nel 1996 questa funzione era svolta dal Garante per la radiodiffusione e per l’editoria che è stato soppresso dalla legge n. 249 del 31 luglio 1997 e le cui funzioni, per l’appunto, sono state attribuite alla neo costituenda Autorità.
[83] Anche sotto il profilo antitrust, la legge n. 416 del 5 agosto 1981 si è caratterizzata come una vera legge di riforma. Ciò rende ancora più preoccupante la manifesta incapacità del legislatore dei successivi venticinque anni di pensare in una logica di sistema, che si è limitato a preannunciare riforme mai realizzate, mentre introduceva norme disorganiche e caotiche.
[84] Chiaramente il primo riferimento è la legge n. 287 del 10 ottobre 1990 che ha introdotto l’autorità garante della concorrenza e del mercato.
[85] In particolare segnaliamo per il settore della comunicazione la legge n. 223 del 6 agosto 1990, la legge n. 249 del 31 luglio 1997 e la legge n. 112 del 3 maggio 2004.
[86] Sull’argomento si veda: F. Bonelli e S. Cassese (a cura di), La disciplina giuridica delle telecomunicazioni, Giuffrè, 1999; B. Olivi, B. Sammarco, La nuova babele elettronica, la tv della globalizzazione dalle comunicazioni alla società dell’informazione, Il Mulino, 2003; C.Gambini, T.Valletti (a cura di), I mercati della comunicazione nell’era digitale, Il Mulino, 2002; F.Bruno, G.Nava, Il nuovo ordinamento delle comunicazioni, radiotelevisione, comunicazioni elettroniche, editoria, Giuffrè, 2006; R.Perez, Il nuovo ordinamento delle comunicazioni elettroniche, Giuffrè, 2004; R.Perez, Telecomunicazioni e concorrenza, Giuffrè, 2002; H Varian e C. Shapiro, Information rules: a strategic giude to network economy, Harvard business school press, 1999.
[87] La Consob, istituita con legge n. 16 del 7 giugno 1974, deve garantire fondamentalmente l’investitore ed il mercato di capitali piuttosto che la concorrenza.
[88] La dottrina economica insegna che le posizioni di controllo del mercato si generano in via prevalente nella fase di start-up o di crisi.
[89] F.P.Casavola, Quarto e quinto potere, Desk, rivista di cultura della comunicazione, anno IV, n. 2, giugno 1997, ha riassunto bene la ratio delle disposizioni dicendo che: “L’ispirazione anticoncentrazionistica degli assetti proprietari nell’editoria che giunge in quella legge a predisporre la nullità degli atti di autonomia privata, che riducano la pluralità delle voci di un libero giornalismo nella riconduzione delle testate ad una oligarchia di proprietari ed editori, fa appello da un canto ai cittadini, cui si concede un’azione popolare per la declaratoria giudiziale della nullità di quegli atti negoziali, dall’altro ha introdotto una figura nuova per il nostro ordinamento, il Garante per l’editoria, Autorità indipendente dall’esecutivo e dal Parlamento. Senza una stampa libera, e libera nel senso precisato di assetto pluralistico delle imprese e delle testate, il Parlamento non è garantito nella sua libera elezione. L’equazione di pluralismo nell’editoria e libertà democratica sta a fondamento della legge del 1981”.
[90] Parzialmente modificato dall’art. 28 della legge n. 112 del 3 maggio 2004 che abrogato la la lettera b del comma 1 dell’art. 3 della legge n. 67/87 che prevedeva che uno stesso soggetto non poteva detenere un numero di testate quotidiane superiore al cinquanta per cento di quelle edite nell’anno solare precedente ed aventi luogo di pubblicazione nell’ambito di una stessa regione e sempre che vi sia più di una testata.
[91] Vedi M. Fabiani, Regole di concorrenza e tutela del pluralismo dell’informazione nella legge di riforma dell’editoria, Dir. d’autore, 1985, 1.
[92] Giurisprudenza commerciale, 1987, II, pgg. 412 e ss.
[93] La sentenza si riferiva all’ipotesi del consolidamento proporzionale previsto dalla note in calce al modello D allegato al regolamento di attuazione della legge n. 416 del 5 agosto 1981 con il D.P.R. n. 73 del 1983. L’ipotesi in oggetto discendeva della specialità delle norme in tema di redazione dei bilanci dei bilanci delle imprese editoriali. Il principio pare oggi estendibile alle ipotesi di consolidamento dei bilanci ai soli effetti fiscali.
[94] La sentenza si riferiva all’ipotesi del consolidamento proporzionale previsto dalla note in calce al modello D allegato al regolamento di attuazione della legge n. 416 del 5 agosto 1981 con il D.P.R. n. 73 del 1983. L’ipotesi in oggetto discendeva della specialità delle norme in tema di redazione dei bilanci dei bilanci delle imprese editoriali. Il principio pare oggi estendibile alle ipotesi di consolidamento dei bilanci ai soli effetti fiscali.
[95] Ad es. vedi sentenza del Pretore di Genova del 12 dicembre 1981, in Foro It. 1982, I, pgg. 568 e ss., che configura come condotta antisindacale il licenziamento dei dipendenti di una società posta in liquidazione facente riferimento ad un gruppo editoriale, in assenza di un piano di ristrutturazione avente ad oggetto l’intera attività svolta dalle società del gruppo. In materia vedi anche P. Zanelli, Trasparenza normativa anti-trust e poteri sindacali nella vicenda del gruppo editoriale Rizzoli (nota a sentenza del Pretore di Milano, 5 dicembre 1981, Associazione lombarda giornalisti FILP CGIL ed altri e soc. Rizzoli ed altri; Pretore di Milano 11 dicembre 1981, Zanella ed altri e società Rizzoli editori ed altri), in Riv., it. Dir. lavoro, 1983, II, pgg. 177 e ss.
[96] In tale prospettiva, il Tribunale di Monza con sentenza del 06 febbraio 1989, in Giur. civ., I, 1223, ha ritenuto che la fattispecie del controllo sussista anche laddove una società che non detenga la maggioranza del capitale sociale della società editrice assuma decisioni che presuppongono il controllo. Il Tribunale ritenne in quella sede l’autonomia giuridica formale della società holding non determina un diaframma invalicabile con l’effettivo controllo laddove si giovi del suo potere di controllo e di indirizzo delle società controllate non attraverso il voto in assemblea ma, altresì, attraverso strumenti diversi. In particolare, la fattispecie era la promessa di obbligazione o l’adempimento di obbligazioni della holding a favore delle partecipate, al di fuori di ipotesi negoziali che trovassero nell’impegno della capogruppo ragione sinallagmatica da parte delle partecipate. Il giudizio in oggetto aveva come parti la Società Telelibera italiana come ricorrente e la società Finivest come convenuta.
[97] La crescita interna rappresenta la fisiologica evoluzione dell’impresa sul mercato. Ipotesi diversa è quella in cui le quote di mercato vengano acquisiti attraverso operazioni di natura straordinaria, quali acquisizioni o fusioni, o accordi volti a ridurre le dinamiche concorrenziali.
[98] Sull’argomento del controllo vedi L.A. Bianchi, Il controllo nella legge sull’editoria, Dir. Informatica, 1986, pgg. 15 e ss.
[99] Sull’argomento la dottrina è vastissima. Tra gli altri, M. Gelmetti, Osservazioni sulla recente giurisprudenza costituzionale in tema di interpretazione autentica e retroattività delle legge, Giur. It., 1994, IV, pgg. 71 e ss. In relazione alla sentenza della Corte Costituzionale vedi G. Brancadoro, Il caso della Rizzoli, davanti al giudice delle leggi (nota a sentenza della Corte Costituzionale 4 aprile 1990, n. 155, soc. Gemina ed altri contro Presidente del Consiglio dei Ministri), Riv. Dir. Comm., 1990, II, pgg. 221 e ss. e M. Manetti, Retroattività ed interpretazione autentica: un brusco risveglio per il legislatore (nota a sentenza della Corte Costituzionale 4 aprile 1990, n. 155, soc. Gemina ed altri contro Presidente del Consiglio dei Ministri, Giur. cost. 1990, pgg. 963 e ss.
Sul problema della successione temporale delle norme vedi la Sentenza della I sez. civile della Corte di Cassazione, n. 3725 del 29 marzo 1995 in relazione all’azione di nullità esperita dal Garante per l’editoria rispetto all’acquisto di n. 12.549.000 azioni della Rizzoli S.p.A. da parte della Gemina S.p.A. In relazione al giudizio vedi L.A. Bianchi, Il caso Rizzoli (nota a sentenza Trib. Milano 6 novembre 1986, Sinpoli e altro c. Editoriale Corriere della Sera ed altri), Giur. Comm., 1987, II, pgg. 413e ss. e, successivamente, sempre L.A. Bianchi, Il caso Rizzoli: fase seconda (nota a sentenza App. Milano 4 ottobre 1991, Santaniello c. soc. Gemina ed altri), Giur. comm., 1992, II, 249.
[100] Sull’argomento ci permettiamo di rimandare a V. Ghionni, Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione, Liguori, III, 2004, pgg. 673 e ss.
[101] Il tempo imperfetto è doveroso, in quanto ad oltre tre anni dall’emanazione della legge il digitale terrestre è ben lontano dal diventare realtà. Nelle more è intervenuta, anticipando la decisione da parte della Corte Costituzionale, l’Unione Europea che ha avviato una procedura di infrazione a carico dell’Italia. Il presente lavoro è chiuso in bozza nel mese di ottobre 2007; in questo momento il disegno di legge del Governo sul bilancio annuale (finanziaria 2008) prevede lo slittamento del termine di passaggio al digitale dal 31 dicembre 2008 al 31 dicembre 2012.
[102] Il Registro degli operatori della comunicazione è stato introdotto dal comma 6 dell’art. 1 della legge n. 249 del 31 luglio 1997 ed è tenuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Sono tenuti ad iscriversi nel registro in oggetto i seguenti soggetti: 1) la società concessionaria pubblica e le imprese concessionarie private; le imprese autorizzate ai sensi degli artt. 38 e 43 della legge 14 aprile 1975, n. 103; 2) le imprese di distribuzione o produzione dei programmi radiofonici o televisivi; 3) le imprese concessionarie di pubblicità da trasmettere mediante impianti radiofonici o televisivi o da diffondere su giornali quotidiani o periodici; 4) le imprese editrici di giornali quotidiani, di periodici o di riviste, 5) le agenzie di stampa a carattere nazionale; 6) le imprese fornitrici di servizi telematici e di telecomunicazioni, compresa l’editoria elettronica e digitale. Il codice delle comunicazioni elettroniche richiederebbe una rilettura delle definizioni date che, allo stato, crea un problema di disincrasia legislativa.
[103] Ai sensi della prima parte del secondo comma rimane, comunque, fermo il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni. Come si dirà meglio in seguito il legislatore con questa previsione che non è certamente residuale attribuisce gli strumenti alle Autorità di settore per rimuovere le asimmetrie del mercato.
[104] Infatti, il medesimo comma 3 cita testualmente: “i ricavi di cui al comma 2 sono quelli derivanti dal finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo al netto dei diritti dell’erario, da pubblicità nazionale e locale anche in forma diretta, da televendite, da sponsorizzazioni, da attività di diffusione del prodotto realizzata al punto vendita con esclusione di azioni sui prezzi, da convenzionamenti con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche erogate direttamente ai soggetti esercenti le attività ricomprese nel sistema integrato delle comunicazioni, da offerte televisive a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici inclusi i prodotti librari e fonografici, commercializzati in allegato, nonché delle agenzie di stampa a carattere nazionale dell’editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di Internet e dalla utilizzazione delle opere cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico”.
[105] Purtroppo l’attenzione politica sul tema non ha consentito di aprire un sereno dibattito sul tema nel Paese. Per la dottrina rimandiamo alle considerazione di F. Bruno e G. Nava, Il nuovo ordinamento delle comunicazioni, Giuffrè, 2006, Milano pgg. 905 e ss. ed alle considerazioni che il Prof. Tesauro fece in occasione dell’audizione parlamentare dell,8 gennaio 2004 innanzi alla VII ed alla IX Commissione del Senato.
[106] La nostra considerazione si riferisce esclusivamente al limite in termini di risorse. Discorso diverso va fatto per il regime transitorio per le licenze di diritto d’uso delle frequenze. Il profilo in oggetto esula dalle finalità del presente lavoro. Ci permettiamo, però, di evidenziare che le frequenze che sono un bene demaniale vengono trattate come un bene privato e che colpisce la circostanza che praticamente nessuno ha sottolineato che le stesse dovrebbero essere concesse a chi le paga di più o a chi le utilizza meglio. Non a chi le aveva ad una certa data. Ma questo è un discorso complesso.
[107] L’individuazione dei mercati rilevanti è, tra l’altro, già prevista dall’art. 18 del codice delle comunicazioni elettroniche. Sull’argomento vedi: Ciullo, Presupposti sostanziali della regolazione, in (a cura di) M. Clarich, Cartei, Il codice delle comunicazioni elettroniche, Giuffrè, 2004, pgg. 115 e ss.
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