La vicenda dei licenziamenti a El País, e in altre testate del gruppo prisa nell’ambito di un discusso processo di ristrutturazione. Il giornalismo spagnolo, così come lo conoscevamo, non esiste più. Un passaggio epocale avvenuto con la velocità di un vortice, sta completamente ridisegnando il panorama giornalistico, culturale e politico del paese. Con grandi rischi per la pluralità dell’informazione e per la qualità della democrazia spagnola.
Quella che è in corso è una guerra che la proprietà del gruppo Prisa ha scatenato contro la sua testata principale, il suo ruolo nella storia e nel giornalismo spagnoli, e contro i giornalisti della sua redazione, con il totale assenso della direzione del giornale. Malgrado sembri un paradosso è quanto meglio descrive la situazione, una vicenda per capire la quale sembrano insufficienti gli strumenti dell’analisi delle politiche editoriali.
El País è il principale quotidiano spagnolo, emblema della transizione che ha portato alla democrazia spagnola. El País è anche un eccellente prodotto editoriale, tra le migliori e più autorevoli testate mondiali, oltre che un grande successo imprenditoriale, riuscendo a far guadagnare moltissimi soldi al suo gruppo editoriale, 810 milioni di euro di ricavi negli ultimi 15 anni. Dopo una storia di continua crescita per la prima volta si prospetta un bilancio annuale in rosso. Un editore ha il dovere di intervenire, tanto più in un contesto nel quale il mercato dell’informazione e della comunicazione sono nel pieno di una rivoluzione che travolge modelli di impresa consolidati e impone nuovi media. Il problema è come e con quali modalità.
Qui inizia la guerra. Proprietà e direzione hanno attaccato i lavoratori del giornale con inimmaginabile autoritarismo reazionario, tale da creare insanabili ferite nel tessuto di relazioni al suo interno e da affondare subito e per sempre il prestigio e l’autorevolezza della testata. Per affrontare la crisi la soluzione trovata è di disfarsi di un terzo il personale del giornale, senza aprire nessun dialogo con i lavoratori. La decisione viene annunciata Juan Luis Cebrián, presidente esecutivo del Gruppo Prisa e fondatore del giornale, che nell’occasione descrive i propri giornalisti come anziani, iperpagati e non in grado di comprendere i nuovi scenari tecnologici dell’informazione. Il comitato di redazione rigetta un piano del quale non riesce a comprendere la ratio e inizia la mobilitazione, indicendo uno sciopero delle firme. Il direttore Javier Moreno, chiama uno per uno i corrispondenti esteri per minacciare il richiamo a Madrid nel caso aderiscano alla protesta. Pressioni al limite dell’illecito vengono fatto nella redazione ma, soprattutto, sui collaboratori giornalistici che non sono firme famose. Quando il comitato di redazione invita Moreno alle dimissioni per il comportamento antisindacale, il direttore replica che lui risponde solo alla proprietà.
Nel frattempo il giornale viene usato come cassa di risonanza delle sole posizioni della proprietà e della direzione e inizia una sistematica censura. Alla giornalista Luz Sánchez-Mellado, che cura una storica rubrica di costume, viene censurata una nota il cui tenore resta sconosciuto – stessa sorte a tre giornalisti dell’edizione valenziana i cui interventi sui blog on-line vengono cancellati. Un’altra censura diventa pubblica per errore. E’ il caso di Santos Juliá, sociologo, docente universitario e storico commentatore del giornale, che nel suo pezzo del 28 ottobre citò Enric González, bravissimo collega per anni corrispondente da Roma, che ha reso pubblica la sua amarezza e annunciato l’abbandono del giornale, e fece riferimenti allo squilibrio retributivo nel gruppo editoriale. Venne chiamato al telefono per invitarlo a sopprimere quelle righe e l’articolo uscì mutilato sul giornale ma completo nell’edizione digitale. Quando il comitato di redazione ha rinnovato la richiesta di dimissioni del direttore, Moreno si è attribuendo tutto all’autocensura di Juliá, il quale ha ammesso l’errore decidendo di rinunciare per sempre alla sua collaborazione settimanale con la testata. Nel frattempo il giornale pubblicava regolari attacchi alle iniziative di lotta dei giornalisti, come la consegna di una lettera ai lettori nella quale veniva spiegato il punto di vista dei lavoratori del giornale, direzione e proprietà aumentavano le minacce di ritorsione.
A questo punto una trentina fra i principali collaboratori del giornale, espressioni di visioni plurali e accomunati tra loro dall’esser scrittori oltre che collaboratori di vecchia data, hanno inviato una lettera di appoggio al comitato di redazione. Nel testo – firme come Antonio Muñoz Molina, Mario Vargas Llosa, Almudena Grandes, Elvira Lindo, Diego Galán, Antonio García Maldonado, Javier Marías, Rosa Montero, Josep Ramoneda, Manuel Rivas, Maruja Torres, Fernando Savater e David Trueba, per limitarci ai più conosciuti in Italia – hanno espresso la loro «inquietudine» per come «questi episodi comportino un passo ulteriore nel deterioramento dei fondamenti valoriali di un giornale cruciale per le libertà e la democrazia spagnola». Sul giornale nessuna menzione del fatto mentre viene indurita l’azione della proprietà e giunge una nuova proposta al comitato di redazione. Comporta l’aumento dell’indennizzo di licenziamento rispetto alle norme di legge – due anni anziché uno per 10 mensilità, non in contanti ma in pagherò, successivamente garantiti da una polizza assicurativa; i licenziamenti vengono ridotti da 149 a 129 esclusivamente per problemi contabili, dato che il giornale non avrebbe in cassa i soldi per pagare gli indennizzi in caso non a un accordo, il che costa più caro alle imprese; viene imposta la clausola di non poter più collaborare con nessun giornale del paese, non solo con le testate del gruppo.
Se ne vanno altre firme autorevoli ma incominciano ad affiorare crepe nella compattezza della redazione e fra i collaboratori di prestigio. Domenica scorsa la proprietà invia le lettere di licenziamento, anonime e per posta elettronica, lo stesso giorno un lungo intervento sul giornale, attribuibile alla direzione, conferma le ragioni e la giustezza della strategia della proprietà, respingendo le accuse senza entrare nel merito, senza informare i lettori delle posizioni critiche. Lunedì la lista trapela. Ci sono nomi storici, conosciuti nel mondo e altri da diversi servizi, tutti validi colleghi che hanno costruito ogni giorno l’autorevolezza e il successo del giornale. Oggi i giornalisti si riuniscono in assemblea per accettare o respingere le ultime proposte. Dovrebbero essere rifiutate ma potrebbe accadere di tutto.
I giornalisti del giornale con cui abbiamo parlato sono pessimisti. Per loro la storia de El País si è già chiusa e la lacerazione nelle relazioni redazionali non è rimarginabile. L’autorevolezza della testata è compromessa, la disaffezione e lo sconcerto dei lettori sono evidenti, e si manifestano in tante diverse forme nella rete. Ancora non ci sono dati per dire se le vendite nelle edicole ne risentano, certamente lo sono il retweett e i follower dei post dell’account del giornale su Twitter.
Il giornalismo e la libertà d’informazione in Spagna sono già mutati. Per ipotizzare gli sviluppi bisognerebbe capire perché tutto questo stia accadendo. Il fatto che accada in queste forme ci dice, senza bisogno di addentrarsi in analisi delle politiche editoriali o delle strategie economiche d’impresa, che il rilancio del giornale non è l’obiettivo della proprietà. Le difficoltà economiche non giustificano lo smantellamento di un’istituzione della storia spagnola, ancora in grado di generare grandi profitti. La riduzione della qualità del prodotto determina le condizioni per una sua vendita, alla luce della necessità per il gruppo di incassare liquidità per compensare la sciagurata gestione delle avventure negli altri media, la televisione soprattutto. Il valore della testata è costituito dal suo marchio e paradossalmente aumenta, una volta svuotato della propria specificità, oltre che alleggerito da un terzo degli stipendi. In questo modo è possibile un radicale cambio di politica editoriale – che diventa anzi necessario, visto il tradimento dei valori fondamentali della testata in conseguenza dei quali non potrà più rappresentare la Spagna progressista. Le ipotesi che girano sono vaghe, alcune le espone Victorino Ruiz de Azúa, ex collaboratore del giornale, che sul sito www.jodown.es fa il punto della situazione. Esclude banche e Telefonica – le prime che non avrebbero interesse a ufficializzare un’influenza già data dalla condizione di creditori del gruppo editoriale, la seconda già presente nell’azionariato ma impegnata in un processo di dismissione di partecipazioni al di fuori del core businness – e punta sulla “pista messicana”: il miliardario e già piccolo azionista del gruppo, Carlos Slim, che è anche buon amico di Felipe González. Il tutto per un giornale più tenero col sistema bancario e meno pregiudizialmente ostile alla destra politica spagnola.
Ma si tratta, appunto, di ipotesi. D’altro canto si apre un enorme buco nell’offerta editoriale progressista spagnola che nessun quotidiano esistente può riempire. La richiesta di vendita della testata al prezzo simbolico di un euro ai lavoratori del giornale è stata rifiutata dalla proprietà e non ci sono prospettive per un’avventura cooperativa. Occorrerà un editore. Malgrado la crisi del mercato editoriale l’occasione è troppo ghiotta perché qualcuno non tenti ma il futuro non è prevedibile. Fino a un mese e mezzo fa, quando tutto è iniziato, nessuno poteva concepire il tradimento dei rapporti umani e dei principi personali e professionali, lo smantellamento rapido e inarrestabile di un’istituzione democratica e giornalistica, la negazione del ruolo e della storia del giornale, il disprezzo nelle relazioni umane e sindacali, l’uso della minaccia e della censura.
L’editoria cartacea quotidiana spagnola è stata terremotata in soli 40 giorni. Ma lo sciame sismico colpirà l’intero panorama editoriale, e la democrazia spagnola, per un tempo che sarà certamente molto più lungo. (fonte articolo 21)