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Internet, aumenta la censura

È un giudizio severo, quello di Freedom House sullo stato della libertà di informazione sul web a livello globale: per tre anni l’organizzazione non governativa internazionale, l’ha studiata attraverso il suo rapporto ‘Freedom of the Net’, e per tre anni ha dovuto concludere che la censura, a livello aggregato, è in aumento. Ma è un giudizio che avrebbe potuto essere anche più severo se, nell’edizione 2013 appena pubblicata, avesse guardato allo scandalo NSA con minore indulgenza. Così, la sensazione che deriva dalla lettura del documento prodotto dai suoi 70 collaboratori su 60 paesi è che quello appena trascorso sia stato un anno negativo per le libertà online, ma tutto sommato come gli altri. Mentre la percezione diffusa tra gli addetti ai lavori, dopo le rivelazioni di Edward Snowden e viste le loro profonde implicazioni internazionali – per non parlare delle conseguenze che si prospettano in termini di governance della rete – è che al contrario ci si trovi a uno snodo cruciale, a un punto della storia che segna un prima e un dopo. Nulla di tutto ciò emerge dal rapporto. Che indica una doppia tendenza: meno libertà online (rispetto a maggio 2012, il segno è negativo in ben 34 paesi su 60 e positivo solo in 16), e al contempo più consapevolezza negli attivisti che cercano di opporsi alla censura web. «L’espansione di questo movimento», composito, «per proteggere la libertà di Internet è uno degli sviluppi più importanti dello scorso anno», scrive la direttrice del progetto Sanja Kelly introducendo il rapporto. Ma non sufficiente a controbilanciare una «proliferazione di leggi, regolamenti e direttive per restringere l’espressione in rete» particolarmente preoccupante, l’«accentuato» incremento dei casi di arresti individuali per contenuti postati su Internet, di «intimidazioni» e persecuzioni legali ai danni di utenti di social media e l’un «aumento della sorveglianza» digitale. Un problema che non riguarda certo i soli Stati Uniti, il cui quarto posto nella classifica globale della libertà di Internet (con un peggioramento nel punteggio finale, ma di soli cinque punti rispetto al 2012) è giustificabile, alla luce dello scandalo NSA, solo con la difficoltà per gli estensori del rapporto di considerare avvenimenti tanto recenti (il capitolo dedicato agli USA specifica di averlo voluto considerare nonostante sia scoppiato a giugno e il resto della trattazione giunga fino ad aprile 2013). Anzi: in 35 dei paesi esaminati, quasi 2/3, le tecnologie impiegate dai governi sono più sofisticate e aggiornate rispetto a 12 mesi fa, i bersagli sono di più e per più motivi, e vi sono più leggi che giustificano un controllo maggiore. E nei restanti 25, si legge, c’è il «forte sospetto» sia avvenuto altrettanto, con l’unica differenza che non siamo riusciti a saperlo per certo. A fare scuola nelle repubbliche ex sovietiche è il sistema di sorveglianza russo, il cosiddetto ‘SORM’, mentre in paesi come il Bahrain le informazioni ricavate dai sistemi di controllo vengono abitualmente utilizzate come prove giudiziarie per incriminare dissidenti all’interno di processi politici.

 In Africa non andrà meglio, perché tutti e dieci i paesi esaminati stanno cercando di implementare sistemi di sorveglianza digitale. Quanto alla «primavera araba», a parte qualche lieve miglioramento in Tunisia e Marocco, c’è da registrare il ripristino dell’apparato che fu in mano a Gheddafi in Libia e le presunte manovre di Morsi con l’Iran prima del cambio di regime in Egitto. Ma è l’intero quadro a essere a tinte fosche. Un paese su due «filtra» (e quindi rende inaccessibili) contenuti di natura politica; 24 su 60 hanno approvato leggi restrittive della libera espressione online negli ultimi 12 mesi; 19 censurano i social media e le piattaforme di blogging. Ancora, aumentano arresti, incarcerazioni e torture a blogger, reporter e ‘citizen journalist’ in rete; in cinque paesi (Siria in testa) si parla anche di omicidi. Il tutto mentre restano cyber-attacchi (come in Venezuela, per impedire l’accesso ai siti di notizie indipendenti), rallentamenti della connessione durante le campagne elettorali o veri e propri blackout della rete (come in Egitto e di nuovo in Siria, ma anche – come visto nei giorni scorsi – Sudan). E tuttavia forse il fenomeno più inquietante è che la manipolazione della sfera pubblica online tramite orde di commenti di natura filogovernativa per diffamare dissidenti, annacquare o nascondere critiche alle autorità e diffondere propaganda di regime riguarda ormai ben 22 paesi. Il governo paga, i commentatori eseguono. Il risultato è una forma di censura perfino più insidiosa, perché subdola. Se l’Islanda è il paese dove la rete è più libera, seguita da Estonia e Germania, dov’è l’Italia nella classifica di Freedom House? Si trova al nono posto, con un punteggio invariato rispetto allo scorso anno. Resta l’influenza nefasta della concentrazione di potere mediatico nelle mani di Silvio Berlusconi, si legge, esercitando così una «influenza indiretta» sull’informazione online. E restano, come sappiamo, i ritardi in termini di penetrazione di Internet, velocità media di connessione e «agenda digitale» che ci costringono a guardare ai competitor europei da inseguitori.mMa ci sono anche delle novità. Su tutte, il MoVimento 5 Stelle, che pare avere sedotto gli estensori del rapporto: «uso dei social media e blogging sono stati critici», si legge, nel «successo» di febbraio 2013. Viene lodato l’uso della rete per prendere decisioni insieme «dal basso» (crowd-sourcing), si ricorda l’allergia di Beppe Grillo per televisione e media tradizionali. Dopo le elezioni, prosegue Freedom House, «il M5S ha usato Internet sia per rafforzare la propria base politica che per condurre consultazioni». Ma il ruolo della rete in politica è aumentato in tutti i partiti, si legge ancora. Una analisi piuttosto superficiale, a dirla tutta, in cui non si considera l’enorme ruolo dei media tradizionali nella cavalcata di Grillo, sottolineata invece da diversi esperti. E in cui vengono omessi gli svariati aspetti critici della «iperdemocrazia» del M5S, che potrebbero far pensare a meno, e non a più libertà derivante dall’uso della rete (come visto nel caso dell’espulsione della senatrice Adele Gambaro). Da ultimo, Freedom House scrive che in Italia «la sorveglianza di massa non è una preoccupazione». Come ha scritto l’Espresso, tuttavia, il caso NSA lambisce anche le nostre coste. Semmai, è il governo che non chiarisce in che misura.

fonte: espresso.it

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